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Anniversari

L’illusione del benessere: Il posto di Ermanno Olmi

60 anni fa usciva nei cinema Il posto, il secondo lungometraggio del regista bergamasco: un’analisi delle contraddizioni del Boom economico.

Tempo di lettura: 9 minuti

Passando in rassegna la filmografia di Ermanno Olmi, la prima considerazione che si è portati superficialmente a fare è la seguente: il suo cinema è sempre stato “fuori dal tempo”. Dopo tutto, già il suo primo lungometraggio aveva un titolo all’apparenza evocativo: Il tempo si è fermato (1959). Il film raccontava una storia “periferica”: un giovane diviene guardiano di una diga situata in alta montagna. Osservando però con maggiore attenzione le opere del regista bergamasco ci si accorge che se è pur vero che uno scollamento rispetto al resto del cinema italiano è evidente in taluni casi e periodi (basti pensare, ad esempio, ai più recenti I cento chiodi e Torneranno i prati), troviamo all’interno della sua filmografia anche pellicole figlie – a livello contenutistico e stilistico – della propria epoca.

Il posto
Sandro Panseri e Loredana Detto in Il posto

Quest’ultimo aspetto è testimoniato, ad esempio, dal suo secondo lungometraggio, Il posto (1961), che quest’anno compie 60 anni. Nel film si riscontrano, infatti, una serie di elementi tipici del cinema dei primi anni ’60: in particolare, l’interesse nei confronti della rinnovata società italiana (siamo negli anni del Boom economico) e l’influenza, a livello estetico, della coeva Nouvelle Vague. Aspetti che convivono con il consueto interesse del regista nei confronti degli stilemi del documentario, maturato durante gli anni alla Edison-Volta, dove entrò per fare il fattorino e finì per dirigerne il reparto cinematografico, all’interno del quale realizzò i suoi primi cortometraggi documentari ed ebbe anche la possibilità di sperimentare il cinema di finzione (a tale proposito, qualche anno fa la casa editrice Feltrinelli pubblicò un cofanetto – Dvd + libro – dedicato proprio agli esordi di Olmi: Gli anni Edison: Documentari e cortometraggi, 1954-1958).

La maggior parte dei primi cortometraggi di Olmi, dato anche l’ambito nel quale vennero prodotti, erano già incentrati sul tema del lavoro. Un interesse che persiste anche nei suoi primi due lungometraggi. Se ne Il tempo si è fermato, però, il regista disloca l’attenzione sull’operato dell’uomo in alta montagna, dando ampio spazio all’elemento naturale – spesso una costante nelle opere del regista -, Il posto si concentra sulla realtà urbana del paese, concentrandosi sul cuore pulsante dell’economia italiana: Milano.

Il posto
Una scena de Il posto

Domenico va in città

Meda è una cittadina che si trova (oggi) in provincia di Monza e Brianza, a pochi chilometri da Milano. Quest’ultima, all’inizio degli anni ’60, è una metropoli in divenire che ha ormai rivoluzionato l’assetto economico e sociale del suo vasto hinterland. Laddove un tempo vivevano i contadini, negli anni ’60 abitano i loro figli, divenuti nel frattempo operai o impiegati nelle molteplici aziende site nella città della Madunina. L’incipit de Il posto “tradisce” l’interesse documentario di Olmi. Ancora prima di presentarci il protagonista, Domenico (il giovanissimo Alessandro Passeri), una didascalia ci informa che: Per la gente che vive nelle cittadine e nei paesi della Lombardia, intorno alla grande città, Milano significa soprattutto il posto di lavoro.

La scelta di apporre tale testo informativo all’inizio del racconto non serve solo a offrire allo spettatore un appiglio storico-geografico-narrativo, anticipando quanto verrà mostrato nell’ora e mezza successiva, ma diviene anche una comunicazione d’intenti. Il posto si propone come uno spaccato – all’apparenza con più di un debito contratto con l’ormai defunto Neorealismo – di un’Italia investita da una modernità con cui è impossibile non fare i conti. Se ne accorge a sue spese anche Domenico, spinto dai genitori a tentare un concorso che gli permetterebbe di ottenere un posto di lavoro in una non meglio precisata azienda milanese.

Il posto
Una scena de Il posto

Contraddistinto dall’indolenza tipica della post adolescenza, Domenico sembra però indifferente rispetto all’opportunità che gli si prospetta davanti. Nella prima parte del film, la figura del protagonista serve ad Olmi come appiglio per compiere (e far compiere allo spettatore) un viaggio all’interno di un mondo in mutamento il cui cambiamento non è determinato esclusivamente dalla città in espansione urbanistica ma anche dai nuovi usi e costumi che contraddistinguono la quotidianità dei suoi cittadini: l’interesse nei confronti degli oggetti simbolo del benessere, come gli elettrodomestici e i vestiti firmati; il costante riferimento alle canzonette popolari in voga in quegli anni, sovente fischiettate da Domenico e spesso emblema degli stati d’animo del protagonista.

Il primo contatto con il protagonista e la città di Milano è frastornante. Il film uscì, come detto, nel 1961. Un anno significativo per Milano, durante il quale venne ultimata la costruzione dell’edificio simbolo della città in quel periodo di espansione: il Grattacielo Pirelli (il cui completamento è evocato anche il recente film di Michelangelo Frammartino, Il buco). Se la città muta esteriormente, il cambiamento è ravvisabile anche a livelli più profondi ed intimi: umani, personali e sociali. Quella descritta da Olmi è infatti una realtà proiettata verso una modernità ambigua, che se da una parte offre all’uomo una miriade di opportunità, dall’altra sembra costantemente minacciarlo, arrivando persino a stritolarlo in una morsa umanamente mortifera e socialmente liberticida.

I figli del Boom economico

L’aspirazione al (tanto agognato, ancora oggi) posto fisso è parte di un’aspirazione più grande: la conquista del benessere. Se Domenico è indubbiamente il protagonista del film di Olmi, Milano potrebbe essere definita, più che il luogo che fa sfondo alla vicenda, la co-protagonista della storia. Nella parte centrale del film, Olmi arricchisce il racconto facendo incontrare (fortuitamente) Domenico con la coetanea Magalì (Loredana Detto), che poi diventerà una sua collega. L’appropinquarsi tra i due giovani non dà solo la possibilità al regista d’inserire una componente “rosa” all’interno del film, ma gli permette al contempo di approfondire la riflessione sui mutamenti che investono la città di Milano e la società italiana di quegli anni.

Una scena de Il posto

Domenico e Magalì (al secolo, Maria Antonietta) si incrociano per la prima volta al concorso: lui la nota subito, lei apparentemente no. Caso vuole che si ritrovino nella stessa latteria per pranzo. Deciso a conoscerla, Domenico si fa coraggio e si presenta. I due scambiano poche parole, vinti da un imbarazzo di matrice adolescenziale; poi, decidono di trascorrere insieme il poco tempo libero a loro disposizione prima delle visite mediche del pomeriggio, parte integrante del concorso. Provano il brivido di prendersi un caffè in una torrefazione (dopo tutto sono due provinciali) e poi si incamminano per le strade di una Milano in fermento. Sono proprio queste sequenze cittadine, che compongono una piccola sinfonia urbana, a mettere in evidenza le plurime anime che contraddistinguono Il posto. Da una parte l’evidente componente realistica: di fatto, nel narrare la loro promenade per Milano, Olmi non fa altro che mettere in pratica quella “poetica del pedinamento” teorizzata vent’anni prima da Cesare Zavattini e Vittorio De Sica (si pensi, ad esempio, a Ladri di biciclette); dall’altra alcune soluzioni narrative e stilistiche (in particolare, la manifesta libertà della macchina da presa, che agilmente si muove negli angusti spazi urbani) che testimoniano l’influenza della Nouvelle Vague.

Il posto
Una scena de Il posto

Da un punto di vista contenutistico, invece, il segmento è significativo per la sua volontà di descrivere una città emblema della nuova società del benessere. Domenico e Magalì si perdono tra i negozi di abbigliamento e di elettrodomestici: simboli, a loro modo, degli anni del Boom economico. E proprio di tale periodo Il posto è una disanima lucida: un’analisi che non si alimenta di preconcetti, ma si “limita” a documentare criticamente, in tutta la sua ambiguità, l’inarrestabile corsa verso il benessere: la stessa che, solo l’anno successivo (al cinema) finirà fuori strada insieme ai due protagonisti de Il sorpasso (1962) di Dino Risi. La capacità di Olmi di racchiudere all’interno di una vicenda banale (la ricerca di un lavoro) una riflessione su un intero frammento di realtà è encomiabile. Ma il film non si ferma a questo livello più “superficiale”. Ha infatti la capacità – specie nella seconda parte – di spingersi oltre, rinnegando persino quel realismo (con una spruzzata di Nouvelle Vague) che – almeno all’inizio – sembrava l’elemento estetico predominante, per riconsegnarci non solo la radiografia di un mondo – nel bene e nel male – fagocitato dalla modernità, ma ponendo l’attenzione anche su un’umanità che di quel mondo è, al tempo stesso, prodotto e vittima.

Il posto
Una scena de Il posto

L’alienazione del lavoratore

La seconda parte del film si concentra maggiormente sul tema del lavoro. Approfittando dell’assunzione di Domenico – che finirà inizialmente a fare l’aiuto fattorino (guarda caso come Olmi alla Edison-Volta) -, il regista descrive la quotidianità lavorativa del protagonista, nonché degli spazi (ambientali e umani) che la delimitano. Inizialmente, Olmi si affida più all’ironia che al cinismo (si pensi, ad esempio, al capo fattorino con cui stringe amicizia Domenico, che lo mette in guardia perché: «Qui c’è una brutta abitudine: l’urgenza»); poi, lentamente ma inesorabilmente, lo sguardo del regista si fa maggiormente disincantato, slittando ben presto nel pessimismo (un’escalation, oltretutto, non estranea al cinema italiano, come testimonia anche Miracolo a Milano di De Sica).

Il lavoro spersonalizza gli individui, sembra dirci Olmi. E non è un caso che l’entrata in azienda di Domenico coincida con la perdita, da parte del giovane, dello status di protagonista assoluto del racconto. Se fino a quel momento Olmi aveva articolato la narrazione assumendo costantemente il punto di vista del giovane aspirante impiegato, nella seconda parte il racconto si fa quasi polifonico. Pur continuando a concentrarsi su Domenico, Il posto si sofferma su altri personaggi, altri lavoratori, osservati non solo durante l’orario di lavoro ma anche nell’ambito delle loro (misere) vite fuori dall’ufficio. Così, incontriamo la segretaria che deve mantenere i figli e arriva a stento a fine mese; l’impiegato che scarica la tensione accumulata durante l’arco della settimana cantando nei Caffè Concerto; e ancora, l’aspirante scrittore che medita un gesto estremo perché prosciugato fisicamente e mentalmente dallo stress lavorativo.

Una scena de Il posto

È evidente che più che nobilitare l’uomo, il lavoro, come descritto ne Il posto, lo priva della libertà, costringendolo a una tragica routine quotidiana. La sequenza finale, da questo punto di vista, è un sunto della tesi che per tutto il corso del film Olmi cerca di argomentare (peraltro, riuscendoci perfettamente). Dopo la gavetta come fattorino, finalmente Domenico riesce ad ottenere l’agognata scrivania (“grazie” al suicidio di un collega). Ad interessarci è però la descrizione del primo giorno in ufficio. Domenico viene fatto sedere al suo nuovo posto, riceve le sue pratiche e inizia a lavorare. Si guarda intorno, come se si sentisse perso; forse oppresso dal silenzio tombale che regna nella misera stanza. D’improvviso, il rumore del ciclostile, intermittente e snervante, rompe il silenzio, iniziando a scandire idealmente un tempo che si preannuncia infinito e, al contempo, apre scenari angoscianti che investono anche la dimensione privata del protagonista.

La solitudine dell’uomo moderno

Se Domenico in quanto lavoratore è alienato, in quanto essere umano è profondamente solo. Di fronte alla crescita smisurata della (futura) metropoli, in Il posto l’uomo si fa piccolo, per non dire infinitesimale. «In un mondo di luci, sentirsi nessuno» canterà Luigi Tenco al Festival di Sanremo del 1967, sottolineando il vuoto esistenziale che contraddistingue l’uomo moderno. Lo stesso vuoto che Olmi descrive nel suo film, generato e alimentato da una quotidianità che assume sempre più le forme di una ripetitività forzata e inanimata: la sveglia all’alba, il viaggio in treno dalla provincia fino a Milano, l’arrivo in ufficio, la giornata lavorativa, il ritorno a casa.

Una scena de Il posto

Il dramma di Domenico non è quindi esclusivo, ma condiviso con tutta l’umanità, almeno per come descritta ne Il posto: sola, incapace di comunicare (effettivamente, il film presenta anche elementi antonioniani), destinata a un benessere che va a braccetto con un’insoddisfazione latente. Sebbene Olmi faccia emergere queste suggestioni a cadenza regolare durante il corso della narrazione, vi è una sequenza che più di tutte si fa carico di evidenziare la tragica solitudine dell’uomo moderno: quella della festa di capodanno. Organizzata dall’azienda per i suoi dipendenti, la serata assume fin da subito una dimensione fantozziana. Invitato da Magalì, che intanto fa comunella con i nuovi colleghi e lo considera poco o nulla, Domenico si reca al party carico di aspettative. Veste il suo abito migliore, indossa il cappotto nuovo e si dirige alla volta di Milano confidando che la serata possa rappresentare una svolta per il rapporto (fino a questo momento platonico) tra lui e la ragazza della quale si è invaghito. Al suo arrivo, però, la sala è praticamente vuota: sono presenti solo la banda incaricata di intrattenere gli invitati, che inizia svogliatamente a suonare, e un paio di dipendenti con famiglia al seguito. Anche quando inizia il lento fluire degli ospiti e la festa entra nel vivo di Magalì nessuna traccia. La ragazza arriverà, ma solo molto più tardi e in compagnia, ma Domenico sarà – suo malgrado – già stato coinvolto nei festeggiamenti, complice qualche bicchiere di troppo.

Il posto
Una scena de Il posto

Olmi descrive la scena attraverso uno sguardo ironico e pessimista al tempo stesso, ma si affida in questo caso specifico ad archetipi tipici del surrealismo per sottolineare la componente oppressiva insita nell’apparente gaiezza della festa. E, osservando la scena, torna alla mente un’analoga sequenza, sempre caratterizzata dal connubio ironico-tragico-surreale: la festa di Carnevale de I Vitelloni di Federico Fellini. Apparentemente più vitalistica a livello superficiale di quella de Il posto, la sequenza del film di Fellini è caratterizzata da una tragicità forse più esibita e disperata. L’immagine di Alberto Sordi che ubriaco si aggira per le stanze del palazzo dove si è svolta la festa portandosi apprezzo un testone di cartapesta è speculare a quella di Domenico, costretto dai presenti a danzare un ballo macabro: un girotondo diabolico che sembra trascinarlo nel vortice devitalizzato dell’esistenza umana. Circondato da miriadi di persone ma tragicamente solo.

Leggi anche: Il cinema va alla guerra: La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo

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