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Il sorpasso

Cinema

Il sorpasso, ritratto sociologico del boom economico

Il film di Dino Risi come manifesto di un’Italia in piena corsa

Tempo di lettura: 4 minuti

È una questione di velocità. C’è un Paese intero che corre, un’Italia che si risveglia improvvisamente industrializzata, moderna, vitale. È un boom, è un vero e proprio miracolo economico; è, anche etimologicamente, una fase forse più casuale che cercata, più inseguita che determinata. E però, si corre. È tutta una questione di velocità. C’è una classe sociale in particolare, i figli di quella piccola borghesia scampata alla guerra ancora incrostati di ventennio ma col mito dell’America nel cuore.
È solo una questione di velocità. C’è un’Aurelia che sfreccia per le vie di una Roma deserta; imbocca un divieto, clacson a tutto spiano, infila una curva a velocità inaudita, si ferma di traverso sul marciapiede. È una questione di velocità, si deve correre. Non c’è tempo per rispettare i segnali stradali, non c’è voglia di rispettarli.

Non sono molti i film che hanno saputo raccontare, interpretare, anticipare, ciò che ha rappresentato il boom economico in Italia all’inizio degli anni ’60: Il boom di Vittorio De Sica del 1963 è sicuramente uno di questi, per certi versi lo è anche Il medico della mutua di Luigi Zampa del 1968 (sebbene arrivi in un Paese già saturo, il miracolo economico è già alle spalle, ci si proietta verso gli anni di piombo). Ma nessuno di questi riesce ad esprimere la forza espressiva, la lucidità sociologica de Il sorpasso. Metafora e simbolo di una Italia, di quell’Italia, Il sorpasso assurge ad archetipo interpretativo un atto, il sorpassare, che racchiude pienamente nella sua essenza tutti i crismi di quel periodo: la velocità, l’ascesa, il sopravanzamento quando non la pura sopraffazione, l’euforia, l’irresponsabilità, il tutto condensato in quel gesto, le corna.

Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman in una scena tratta da Il sorpasso
Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman in una scena tratta da Il sorpasso

In questo senso Bruno Cortona è la maschera perfetta e Vittorio Gassman l’attore più adatto per indossarla, ancora più di Alberto Sordi, sebbene il personaggio fosse stato inizialmente per lui pensato; Gassman, a differenza di Sordi, essendo solo da pochi anni arrivato alla commedia (grazie a Monicelli che nel 1959 lo sceglie per I soliti ignoti), nel 1962 non era la personificazione dell’italiano medio cialtrone, cinico e vigliacco, cosa che gli ha consentito di lavorare alla costruzione di un personaggio più sfaccettato, più umano e per questo più credibile.

Bruno Cortona è sì un cialtrone che espone sul parabrezza il farlocco talloncino della Camera dei deputati, un irresponsabile, un euforico bambinone, ma è anche un uomo generoso, un uomo disponibile, consapevole di essere un pessimo padre e un pessimo marito, intimamente fragile e per questo pubblicamente sguaiato. Bruno Cortona è quella piccola borghesia in fermento, il suo è il tentativo di un’intera classe sociale di ascendere, di bere un sorso di quel calice chiamato benessere; da qui la velocità e il sorpasso, perché è una guerra di tutti contro tutti e solo chi prima arriva meglio alloggia.

In questo senso Dino Risi realizza un film perfetto. Porta lo spettatore un po’ all’interno dell’Aurelia, e un po’ lo lascia osservare la fisionomia e la fisiognomica dei protagonisti della corsa, quasi con sguardo sociologico, indagatore. C’è l’asfalto, la strada, retta e tortuosa, con le sue curve e i suoi pericoli. Ci sono le soste, obbligate, ristoratrici. Ci sono gli incontri causali, come con lo studente Roberto, o cercati. E c’è sopratutto l’aria, l’atmosfera di quegli anni, sembra di sentirsela addosso: viene fuori dagli oggetti, da quell’auto, dai telefoni a gettone, dal giradischi, dai Cinar ordinati al bar, dalla città deserta a ferragosto, da “Guarda come dondolo”, dall’Agip “cane a sei zampe amico fedele dell’omo a quattro rote”.

Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman in una scena tratta da Il sorpasso

Dovresti studiare Diritto Spaziale! Se due astronavi si scontrano, chi è che paga? I terreni sulla Luna si possono lottizzare?”. Le parole folli e un po’ strampalate di Bruno, che sottendono anche un vago sapore di visionarietà sul futuro, per un attimo sembrano far vacillare le certezze dello studente Roberto. Lui, Roberto, col suo candore e la sua innocenza, con gli splendidi occhi tristi di Jean-Louis Trintignant, è uno spettatore inerme delle gesta di Bruno e del miracolo economico, non ne fa parte, non vuole farne parte, la sua è una corsa su una strada diversa. Su questa strada, quella di Bruno, è un passeggero, un ospite casuale, vi si aggira con circospezione e cautela, con timore e soggezione, ma non può che rimanerne affascinato e inebriarsi anche lui di quella euforia che in quegli anni tutti contagiava.

E proprio al picco dell’euforia arriva la curva fatale, lo schianto, la fine. Quasi a voler parlare a un Paese in estasi e a un’intera classe sociale inebriata dal benessere, Risi pare non voler lasciare nulla di sospeso alla fine del proprio film, che proprio alla luce di quel finale assume i contorni di un invito a tenere i piedi per terra, a non perdere la testa. Un finale dal retrogusto moralisteggiante più che amaro, lo strano epilogo di un film che di moralistico, fin lì, non aveva avuto nulla.

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