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Una scena tratta da I Vitelloni

Cinema

I ricordi di un giovane Vitellone

Film simbolo del primo Federico Fellini, I Vitelloni è ancora attualissimo nel raccontare la vita, le miserie, le speranze di cinque ragazzi di provincia. Ma chi erano i Vitelloni? Moraldo, il più timido ma anche il più determinato, ce li racconta.

Tempo di lettura: 4 minuti

Rimini è una città così triste d’inverno, sembra quasi disabitata. Spazzata da un vento gelido, spesso sferzata da una pioggia battente, raramente baciata da un timido sole. A noi però piaceva lo stesso. Andavamo a guardare il mare e ciascuno di noi ci vedeva una cosa diversa: chi il successo della propria commedia, chi l’amore di una vita, chi la prossima conquista amorosa; io cercavo di vedere semplicemente un nuovo orizzonte.

A quel tempo eravamo tutti ancora giovani, eravamo illusi e delusi al tempo stesso, cinici e coraggiosi, vigliacchi e ardimentosi. Ma eravamo noi, sempre noi cinque: io, Fausto, Leopoldo, Riccardo e Alberto.

Passavamo molto tempo insieme, nel nostro bar preferito, spesso giocando a biliardo; la notte stavamo in giro: nessuno di noi aveva voglia tornare a casa. Avevamo dei sogni, volevamo scappare da quella provincia che ci stava tanto stretta. Forse era solo voglia di scappare da noi stessi.

Una scena tratta da I Vitelloni
“I vitelloni” di Federico Fellini

L’estate finì all’improvviso la sera in cui mia sorella Sandra venne eletta Miss Sirena 1953; finì quella sera anche l’estate di Fausto, ma lui ancora non lo sapeva o non voleva accettarlo. Era un donnaiolo, un irresistibile cascamorto, e mia sorella ci era cascata. Aspettava un bambino e lui, che avrebbe tanto voluto scappar via a Milano, fu costretto a riparare sposandola. Io non gli ho mai serbato rancore, dico sul serio. Forse aveva ragione Alberto quando diceva che Fausto si era comportato male, che era un mascalzone, uno zozzone, uno sporcaccione.

Ma a quel tempo Alberto non potevi mai prenderlo sul serio. Viveva con la madre e una sorella che lavorava per tutti e tre. Il suo unico interesse era il carnevale. Tutto l’anno si preparava per quei giorni, per il veglione, sceglieva la maschera, gli abiti, i trucchi, le parrucche: per lui preparare degli scherzi era la cosa più seria del mondo.

Quell’anno prese una sbronza colossale e dovetti portarlo io a spalla verso casa, mentre lui continuava a ripetere, tra il serio e il faceto, tra lucidità ed ebbrezza, che gli facevamo schifo, che dovevamo sposarci come aveva fatto Fausto, che dovevamo partire per il Brasile.

Alberto Sordi ne I vitelloni
Alberto Sordi ne “I vitelloni”

Fu lì che assistetti, mio malgrado, alla scena che diede un colpo definitivo alla ridicola malinconia di quei festeggiamenti: la sorella lo stava aspettando per dirgli addio, in procinto di scappare per seguire il suo destino tra le braccia di un uomo spostato. Pensavo che qualcosa in lui sarebbe cambiato da quella mattina, da quella presa di coscienza sulla propria vita e sul proprio futuro; forse mi sbagliavo: Alberto aveva sempre avuto piena coscienza di sé, delle proprie incapacità, di una certa impossibilità per lui di cambiare le cose; per questo amava il gioco e lo scherzo. Come quella volta che dall’automobile fece il gesto dell’ombrello con annessa pernacchia a un gruppo di lavoratori; questo era Alberto, un uomo ingenuo, semplice e frivolo: un adulto bambino.

Fausto era il suo esatto opposto. Tanto dedito al gioco l’uno, tanto appassionato di donne l’altro. Le infastidiva, le adulava, le corteggiava, le ghermiva, le prendeva e le gettava; che fosse al cinema con mia sorella, che si trattasse della moglie del principale o di una attricetta di passaggio, per lui non faceva alcuna differenza. Sandrina sospettava, Sandrina capiva, Sandrina subiva, come le era stato insegnato. Finché la misura non fu colma e, una mattina presto, prese il piccolo Moraldino e andò via. La cercammo per tutto il giorno, dappertutto, io per mio conto e Fausto con i ragazzi. Più la cercava, più non la trovava e più, lentamente, impazziva. Temevamo il peggio.

Sandrina aveva passato la giornata a casa del signor Francesco, il padre di Fausto. Era un brav’uomo il signor Francesco, un lavoratore, un uomo umile che era rimasto vedovo con una figlia piccola da crescere e un ragazzo già grande che lui proprio non comprendeva, proprio non riconosceva, proprio non accettava che fosse potuto venir su così diverso da lui, così lontano dai suoi insegnamenti. Per Sandra e il piccolo Moraldino provava sincera tenerezza, capiva i patemi che il figlio procurava loro, forse un po’ se ne sentiva anche responsabile e per questo voleva cercare di rimediare come poteva, ad esempio dandogli ospitalità quando occorreva, quando lei non ne poteva più.

Si tolse la cinghia quando Fausto arrivò come forse avrebbe dovuto fare da tempo, ma io ho sempre pensato che fu più lo spavento e il senso di colpa preventivo a far capire a Fausto che era ora di cominciare a essere un marito e un padre sul serio. Fu per consapevolezza, non per romanticismo.

Una scena tratta da I Vitelloni
Una scena tratta da il film “I vitelloni” di Federico Fellini

Del resto di romantico Fausto non ha mai avuto nulla, a differenza di Riccardo, con il suo amore per la musica e per il canto, e sopratutto di Leopoldo, il nostro scrittore, il nostro drammaturgo.

Era il più talentuoso di noi Leopoldo, l’unico con una vera grande passione, il solo che avrebbe meritato ben più importanti luoghi in cui poter coltivare ed esprimere la propria creatività. Al contrario, una parte di lui ogni giorno moriva tra la spiaggia e il bar.

Quello che accadde con il capocomico Sergio Natali, con quel suo inquietante modo di lusingarlo, forse non solo intellettualmente, penso che minò per sempre le sue ambizioni. In quel periodo Leopoldo era ancora sospeso tra il sogno mettere in scena le sue opere nei più importanti teatri d’Italia e i teneri, romantici, meschini complimenti alla cameriera dei vicini, affacciati a una finestra. Avrebbe dovuto lui più di chiunque altro prendere quel treno.

E invece, quel treno lo presi io una mattina presto. Senza sapere bene dove andare, senza riuscire a spiegare bene perché, partii. Non avvertii nessuno, non salutai nessuno, ma mentre il treno si muoveva mi sembrò di abbracciarli tutti un’ultima volta, Fausto, Sandra e il piccolo Moraldino, Leopoldo, Riccardo e Alberto.

Sembrava un sogno. Li lasciai con i loro occhi chiusi, ma i miei occhi erano aperti, finalmente.

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