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La battaglia di Algeri

Anniversari

Il cinema va alla guerra: La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo

Con La battaglia di Algeri, uscito cinquantacinque anni fa, Gillo Pontecorvo cambiava per sempre la storia del cinema

Tempo di lettura: 11 minuti

Uscito il 10 settembre del 1966, La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo non si limitava a trionfare a Venezia, ma diventava una pellicola destinata a cambiare per sempre la storia del cinema.

Fondere cronaca e finzione

Ormai assurto allo status di cult, La battaglia di Algeri ha largamente superato la prova del tempo, dimostrandosi influente e innovativo, sebbene un’impostazione parzialmente analoga si trovi già ne L’ultimo degli Stuart di Peter Watkins (1964), cronistoria di una battaglia del settecento in cadenze di reportage dal fronte di guerra che anticipava alcuni motivi salienti – soprattutto ideologici – del capodopera di Pontecorvo. Il film italiano si pone pertanto come resoconto filmato su ciò che era già Storia, e nella quale si innesta il confronto tra due nazioni rappresentate da altrettanti uomini: il Colonnello Mathieu (Jean Martin), personaggio ricalcato sul Generale Massù – il vincitore della battaglia urbana del 1957 – e Alì La Pointe (Brahim Haggiag).

Genesi di un capolavoro

Quando inizia le riprese del film, Pontecorvo vanta al proprio attivo alcuni documentari tra cui Pane e Zolfo (1956) e il controverso Kapò (1959), che lo ha reso celebre. Paradossalmente sarà proprio il suo occhio documentaristico innervato nel reale a plasmare il tratto più emblematico de La battaglia di Algeri. Facendo tesoro della propria esperienza e conferendo un taglio realistico da cronaca televisiva alle vicende narrate nella pellicola – che si rifà a episodi realmente accaduti – Pontecorvo realizza il vertice di un’intera carriera e, al contempo, uno dei più grandi film italiani di tutti i tempi, idolatrato soprattutto nei paesi di lingua inglese. Caratteristiche peculiari di questa pietra miliare sono l’uso della macchina a mano, spesso in mezzo a scene concitate, la valorizzazione dei primi e primissimi piani e un montaggio secco e serrato che si sposa perfettamente a un’ottica da reportage.

Un'immagine tratta da La battaglia di Algeri
Un’immagine tratta da La battaglia di Algeri

Contribuisce alla riuscita di questa impostazione narrativa affatto particolare il bianconero sgranato di Marcello Gatti, ottenuto con una pellicola a 16 mm trattata in sovraesposizione che conferisce all’immagine un alone da cinegiornale. L’intento era infatti quello di portare sullo schermo un’immagine lontana dalle alchimie estetiche del cinema di intrattenimento, sebbene questa fotografia essenziale, stemperata in una sorta di grigio negli esterni girati nella Casbah, si esalti nell’impostazione chiaroscurale di certe scene. Più tardi lo stesso regista ha dichiarato che intendeva dare allo spettatore la sensazione di un “effetto-presenza”, ovvero la sensazione di esperire la storia dal vivo.
Da queste parole si coglie il senso profondo dell’operazione condotta dal regista e dal suo sceneggiatore, Franco Solinas, basata su una rigorosa documentazione storica. Come ha scritto Mauro F. Giorgio, citando un critico inglese, quello di Pontecorvo è un film neorealista filtrato attraverso anni di esperienza televisiva. Difficile non essere d’accordo, anche se – come continua il predetto critico – il capolavoro del ’66 «non si pone come mera mimesi del reale, né come imitazione pedissequa di un modello (….) bensì come ricostruzione e reinterpretazione di fatti e di stili attraverso l’oggettività della documentazione storica». In tale contesto è imprescindibile l’apporto della voce narrante (di Ferruccio Amendola nell’edizione italiana) che legge i comunicati delle due parti in lotta: un brillante espediente narrativo che, oltre a spiegare gli eventi, conferisce un ulteriore taglio drammaticamente cronachistico alla pellicola.

Nascita di una nazione

Un inizio folgorante – con la mdp che inquadra uno squallido ufficio trasformato in stanza di tortura e la scritta Algeri 1957 in sovraimpressione – pone subito lo spettatore in medias res. Un prigioniero è stato costretto a rivelare il rifugio dell’ultimo drappello di membri del Fronte di Liberazione Nazionale algerino (FLN), in una casa della Casbah, l’antica cittadella fortificata di Algeri. I parà del Colonnello Mathieu si precipitano a circondare l’edificio e, una volta individuati i superstiti (tra cui Alì La Pointe) gli intimano di uscire dal suo nascondiglio – una nicchia angusta dietro un muro – e di arrendersi, minacciando di usare l’esplosivo. Da questo indimenticabile incipit – ritmato magistralmente dal motivo principale del film, una drammatica marcia militaresca – si snoda un lungo e articolato flashback.

Un'immagine tratta da La battaglia di Algeri
Un’immagine tratta da La battaglia di Algeri

La Casbah è una sorta di roccaforte abitata quasi esclusivamente da algerini e abbarbicata sulla collina che incombe sopra la città europea, l’Algeri francese. Si tratta dunque di un’entità a sé stante, caratterizzata da dedali di vicoli così stretti da trasmettere un senso di claustrofobia, sensazione che si ripete, amplificata, negli scorci degli spogli interni, con scale e corridoi angusti. Questa suggestiva cittadella medievale era già stata portata sullo schermo quasi tre decenni prima da Julien Duvivier con il leggendario Pépé Le Moko. Ma se nella pellicola del 1937, che consolidò definitivamente il mito di Jean Gabin, la Casbah – nonostante fosse un luogo insidioso, regno di banditi inafferrabili – ostentava ancora una patina folcloristica, nel film di Pontecorvo essa rappresenta invece il nucleo e l’epicentro di una consapevolezza nazionale ancora allo stato embrionale ma non più sopprimibile. Un vero e proprio organismo palpitante e vivo, che si oppone all’oppressore francese con l’unità d’intenti dei suoi stessi abitanti. Una prova di resistenza che non si limita alla sola organizzazione clandestina, ma che lentamente si espande tra i civili e i non combattenti, e che viene scandita nei momenti cruciali dalla zagroutah intonata dalle donne algerine. In tale contesto favorevole, il Fronte di Liberazione Nazionale può mettere radici e iniziare una guerriglia senza esclusione di colpi.

La presa di coscienza di Alì

Nel 1954 Alì è un ladruncolo che vive di espedienti. Incarcerato, assisterà all’esecuzione di un prigioniero politico condannato alla ghigliottina. È una scena significativa, che rappresenta un punto di svolta. Alì, esacerbato da condizioni di prigionia insostenibili in una cella sovraffollata, ubbidendo a un impulso irrefrenabile si precipita alla finestra con l’intenzione di vedere a ogni costo l’esecuzione del militante. È il suo primo vero atto di consapevolezza del dramma algerino e, non a caso, concerne l’osservazione della realtà, con la prospettiva del protagonista che si sovrappone a quella dello spettatore. Tre anni dopo Alì è di nuovo libero e viene avvicinato da membri del FNL per una missione, quella di uccidere un poliziotto francese. L’incarico si rivelerà solo ed unicamente una prova che l’organizzazione clandestina ha messo in scena allo scopo di testare la determinazione e la fedeltà del neofita, al quale verrà in futuro affidato ben altro compito.

Un'immagine tratta da La battaglia di Algeri
Un’immagine tratta da La battaglia di Algeri

Sulla scia del comunicato numero 24 dell’FNL – nel quale si proibisce alla popolazione autoctona di Algeri il gioco d’azzardo, il consumo di alcol e droga, nonché lo sfruttamento della prostituzione – ad Alì viene ordinato di dare un terzo e ultimo avvertimento a un algerino che, alimentando i suddetti fenomeni che abbruttiscono la popolazione e creano potenziali spie in seno alla Casbah, si arricchisce e prospera sulla pelle delle propria gente. Al rifiuto del lenone, che pure lo aveva preso anni prima sotto la sua ala protettrice, ad Alì non resta che ucciderlo. L’obbedienza all’ordine di liquidare un ex-amico rappresenta per il protagonista un passaggio del Rubicone, sia per l’uccisione in sé che per il rigetto completo e definitivo del proprio passato. Anche in questo modo si sviluppa la presa di coscienza di Alì, che trova il proprio riscatto nella lotta per la liberazione.

Il trauma dell’Algeria francese

La violenta repressione francese nella colonia algerina – in contrasto con ciò che era accaduto in Tunisia – non è facile da spiegare. Non solo la destra più oltranzista, ma anche uomini di sinistra come Mendes-France e Mitterand giudicavano l’Algeria la “quarta sponda” della Francia, come se fosse parte del territorio metropolitano. All’epoca dei fatti la colonia era abitata da oltre un milione di francesi, molti dei quali non avevano mai nemmeno visto la patria dei loro genitori, i cosiddetti pieds-noir. Tra questi c’erano anche personalità di spicco come lo scrittore Albert Camus. Tale atteggiamento intransigente era anche figlio di una frustrazione militare; quando nel film i parà sfilano per le vie della città europea capeggiati dallo stesso Mathieu, la consueta voce off commenta lo stato di servizio dell’ufficiale, menzionando una guerra vinta “a traino” (il secondo conflitto mondiale) e un’altra persa sul campo (quella in Indocina). In pratica, il curriculum di una ex-grande potenza coloniale in declino, che spiega indirettamente l’ossessione francese per l’Algeria come riscatto nazionale.

Un'immagine tratta da La battaglia di Algeri
Un’immagine tratta da La battaglia di Algeri

Viene quasi spontaneo ricordare la scena in Apocalyse Now Redux (2001) che vede il capitano Willard e i suoi ospiti di un’anacronistica piantagione francese, i cui proprietari rivendicano con un orgoglio rabbioso e irrazionale il fatto di essere ancora in quel territorio – minuscola enclave dimenticata dagli uomini e dalla Storia – vantandosi che a loro non sarebbe accaduto ciò che era successo ai loro connazionali in Indocina e in Algeria. Anche molti dei protagonisti francesi di questa vicenda (a eccezione, forse, del disincantato Mathieu, che pure si impegna allo stremo) sono animati dalla stessa fatale irrazionalità.

L’inizio della fine

Alternando il boicottaggio delle leggi francesi e gli scioperi alle prime azioni contro i militari e i poliziotti, l’FLN pone in atto una strategia dell’esasperazione che, tuttavia, innescherà la rabbia dei pieds-noir e a una prima infame ritorsione, un attentato dinamitardo contro degli innocenti che vivono nella Casbah. Tale ritorsione – che prefigura la nascita dell’organizzazione francese di destra OAS, ben decisa a tenere l’Algeria sotto la Francia – fatalmente, non potrà che generare una reazione analoga, con tre attentati (uno dei quali in un bar frequentato da giovani) portati a segno da altrettante donne algerine abbigliate all’occidentale. A questa carneficina seguirà la decisione di richiamare dalle montagne algerine i parà del Colonnello Mathieu per impegnarli in una strenua lotta urbana. È l’inizio della lunga e sanguinosa “Operazione Champagne”.

Mathieu e Alì, un duello a distanza

Quasi in modo sommesso e minimalista inizia un vero e proprio duello a distanza tra i due contendenti di maggiore importanza del film, che però si incontreranno solo nelle battute finali della tragedia, senza peraltro potersi guardare negli occhi. Altra caratteristica saliente del film di Pontecorvo è infatti la pari dignità dei “duellanti” che si rispecchia anche in una contrapposizione non tanto ideologica (Pontecorvo tratta con distacco le rispettive convinzioni), quanto piuttosto realistica.

Un'immagine tratta da La battaglia di Algeri
Un’immagine tratta da La battaglia di Algeri

Se La Pointe è figlio di una società oppressa e odia i colonizzatori in modo viscerale, Mathieu comprende le ragioni del nemico ma, soprattutto, si fa portavoce di un’idea netta e ben definita davanti alla stampa del proprio paese: ai giornalisti che gli rinfacciano le torture e i maltrattamenti ai prigionieri effettuati al fine di estorcere informazioni, egli dichiara infatti che il punto della questione è se la Francia vuole o non vuole restare in Algeria, e che se intende rimanere deve accettare le conseguenze di una lotta spietata. Alla determinazione fredda e metodica di Mathieu fa eco quella di Alì, deciso a non arrendersi nemmeno quando si ritrova intrappolato. Ma se l’esito della Battaglia di Algeri arriderà al primo, sarà l’ultimo a godere di un trionfo postumo.

Il parossismo della Storia

Come ha scritto qualcuno, la vittoria militare dei francesi nel 1957 fu in realtà una sconfitta dal punto di vista etico, e non solo per la brutalità della repressione. L’indipendenza del Paese che occupavano poteva solo essere rimandata, come provarono i fatti. D’altro canto, il secondo dopoguerra è caratterizzato da conflitti e rivoluzioni che esprimono il risveglio dei paesi del terzo mondo contro la colonizzazione (sebbene spesso tale risveglio non abbia dato i risultati sperati). In due decenni si sviluppano molte violente convulsioni nei paesi del cosiddetto terzo mondo nella contingenza di un confronto “raffreddato” tra gli imperialismi di USA e URSS, a malapena coperti da una maschera ideologica. In tale contesto inizia dell’epoca dei mass media e, soprattutto,  della televisione che fa esplodere sugli schermi dell’Occidente la virulenza del reportage di guerra.

Un'immagine tratta da La battaglia di Algeri
Un’immagine tratta da La battaglia di Algeri

All’epoca dei fatti di Algeri si è a ridosso dei drammatici anni sessanta, nei quali – grazie anche a questo contributo del controverso nuovo mezzo di comunicazione e al suo influsso collettivo – le certezze occidentali vengono scosse. Questo è  il nuovo parossismo della Storia, che si riverbera nelle case della cosiddetta opinione pubblica e che sembra coinvolgere anche quelli non direttamente toccati dai conflitti che infiammano il mondo. Pontecorvo, che con grande finezza mette in risalto i due confronti fra Mathieu e la stampa occidentale, gira il film dopo quegli accordi di Evian del 1962 che sancirono l’indipendenza algerina, quasi a sottolineare a ritroso come non si possa fermare il motore della Storia. Purtroppo tale motore, almeno nelle ex-colonie, rischia di incepparsi spesso; come afferma Ben Mihdi, un ideologo dell’FNL rivolgendosi ad Alì «Iniziare una rivoluzione è difficile, portarla avanti è molto difficile, vincerla è difficilissimo. Ma è solo dopo la vittoria che iniziano le vere difficoltà». Non è detto che Alì abbia compreso le parole dell’ideologo (poi catturato dai francesi e misteriosamente “suicidatosi” in carcere), ma lo spettatore può senz’altro capirle, anche alla luce degli avvenimenti storici che sarebbero seguiti.

L’equilibrio nella narrazione

Pontecorvo aveva lasciato il PCI dopo la repressione della rivolta d’Ungheria del 1956, ma restava un uomo di sinistra decisamente contrario al colonialismo. Tuttavia, sebbene politicamente schierato a favore degli insorti, mantenne un ammirevole equilibrio nel rappresentare le ragioni delle due parti nonché un sincero orrore per la violenza perpetrata nei confronti degli inermi (due scene analoghe, con morti di entrambe le fazioni, sono contrappuntate dalla stessa musica dolente e ieratica, portavoce di uno strazio comune). Una pietà che non fa distinzione ma che, naturalmente, non può non avere un occhio di riguardo per gli oppressi. Lo stesso tema dolente degli attentati ritornerà nelle brevi ma intense scene di tortura, che testimoniano il calvario di un popolo in cerca di libertà.

Un'immagine tratta da La battaglia di Algeri
Un’immagine tratta da La battaglia di Algeri

Il sapore acre del dolore e della guerra si stempera in parte solo verso la fine della pellicola, quando il popolo algerino, dopo circa due anni di relativa calma, sciama per le strade a reclamare  in modo affatto spontaneo – tanto da sorprendere perfino i membri dell’FNL in esilio – l’agognata indipendenza. In ogni caso, quello dimostrato da Pontecorvo è un equilibrio raro non solo negli anni sessanta – nei quali la militanza faceva già tendenza – ma anche nel cinema d’oggi. Un equilibrio che si riflette nella scelta di unire in una felice ibridazione il cinema di finzione all’oggettivo documentario storico. Non per nulla l’opera di Pontecorvo ha mantenuto intatto il proprio fascino, anche per la capacità di porsi come prospettiva lucida ed obiettiva di uno dei più drammatici eventi del XX secolo, tanto che il risultato scontentò molti sia a destra che a sinistra (e nemmeno gli algerini furono molto soddisfatti). Ma forse questa è una caratteristica precipua delle opere davvero epocali.

Una rivoluzione nel cinema

Diversi sono gli elementi che hanno contribuito alla riuscita del film, premiato a Venezia con il leone d’Oro nel 1966, a cominciare dalla già citata fotografia di Gatti e dall’efficace colonna sonora di Morricone (alla quale contribuì lo stesso regista). Sono da elogiare incondizionatamente le performance di tutti gli attori algerini, rigorosamente non professionisti, al contrario del francese Jean Martin. Tra questi spicca il nome di Yacef Saadi, produttore del film, che interpreta un personaggio (quasi) autobiografico. Yacef, nato ad Algeri nel 1928, era stato piccolo criminale (come Alì) prima di aderire al Fronte Nazionale di Liberazione e reclutare giovani donne, tra cui le famose Djamila Bouhired e Zoha Drif, incaricate di piazzare ordigni nella zona europea (anni più tardi, Yacef si sarebbe dichiarato pentito di quelle azioni, non tanto per le morti causate quanto piuttosto per le mutilazioni inflitte ai feriti).

Un'immagine tratta da La battaglia di Algeri
Un’immagine tratta da La battaglia di Algeri

Oltre al Leone d’oro a Venezia, si segnalano due nomination all’oscar (alla regia e alla sceneggiatura) e altri premi minori. Fu proibito in Francia fino al 1971. Fece inoltre scalpore la notizia del 2002, secondo la quale la pellicola era stata scelta dal Pentagono come esempio di contrasto alla guerriglia urbana, ma sembra che anche le Black Panthers lo considerassero motivo di studio per la lotta armata. Da notare che la guerra d’indipendenza algerina ispirerà anche altri film, più o meno meritevoli d’attenzione: Né onore né gloria (1966) di Mark Robson, e Uomini senza legge di Rachid Bouchareb (2010), mentre Il primo uomo di Gianni Amelio (2011) è modellato sulla figura del pieds-noir Camus. Il conflitto sarà presente, sebbene in modo indiretto, anche nel classico di Fred Zinnemann Il giorno dello sciacallo (1973), ispirato ai vari tentativi del già citato OAS di uccidere quel De Gaulle che aveva concesso l’indipendenza all’Algeria e che i membri di quell’organizzazione clandestina consideravano poco meno di un traditore.

Leggi anche: Pandora: la clessidra incrinata di Albert Lewin

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