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Tom Cruise in Eyes Wide Shut

Anniversari

La tecnica poetica di Eyes Wide Shut

Eyes Wide Shut 20 anno dopo: alla riscoperta dei dettagli rivelatori di un’intera concezione di cinema

Tempo di lettura: 10 minuti

È sorprendente quanto Eyes Wide Shut, a distanza di vent’anni dalla sua uscita, riesca ancora ad ipnotizzare il pubblico. Accostarsi ad un qualsiasi film di Stanley Kubrick causa nell’interprete un perenne oscillamento emotivo: all’ebbrezza della scoperta, dell’ermeneutica e dei possibili collegamenti infra- ed extra-testuali, corrisponde spesso l’uguale e contraria frustrazione scaturente dall’immancabile sensazione di mancare sempre – almeno un po’ – il punto. Basterebbe richiamare alla mente una delle rare ma illuminanti interviste di Kubrick risalente al 1960, per spiegare la granitica densità di ogni suo singolo fotogramma: «Mi piacerebbe fare un film che possa dare un senso dei tempi, una storia contemporanea che alla fine dia il senso del tempo in cui si svolge, psicologicamente, sessualmente, politicamente, personalmente.». E di quale film di Kubrick ciò non potrebbe dirsi? Ragionando sulla sua filmografia, non è fuorviante pensarla come una specie di opera omnia nella quale il regista ci fornisce la sua personale valutazione dello zeitgeist dei suoi tempi. Tra, ed attraverso (quasi) tutti i generi, quello kubrickiano somiglia nel suo complesso ad un discorso antropologico di straordinaria ampiezza e profondità.

Alla luce di questa premessa, e consci dell’impossibilità di trovare un qualsiasi particolare non ancora colto o una qualunque sottotrama non ancora sviscerata, proveremo a seguire un “percorso archeologico”, che riesca a ricollegare alcuni dettagli tecnici ed estetici di Eyes Wide Shut allo spirito veicolato dal film. L’operazione, naturalmente arbitraria, cercherà di prescindere dall’ovvia valutazione del film, preferendo addentrarsi invece nella grammatica e nella tecnica di un regista impareggiabile sotto questi punti di vista. Del resto, se è vero che per il cinema il messaggio veicolato è imprescindibilmente ed ontologicamente legato alle modalità tecniche di restituzione visiva, ciò è ancor più vero nel caso di un regista come Kubrick.

Nicole Kidman

Accostarsi in questo modo ad Eyes Wide Shut (ed alla sua intera opera) richiede un prestito disciplinare di matrice filosofico-antropologica, che trova nella “descrizione densa” dell’antropologo statunitense Clifford Geertz il suo strumento più fecondo. Nell’universo di Kubrick, un fotogramma non è mai solo un fotogramma; un raccordo non è mai soltanto una modalità di cucitura e di transizione tra le scene; un dialogo non è mai meramente narrativo. In Kubrick tutto rimanda a qualcosa di più ampio, e se si spera di seguirne – anche in maniera appena accennata – le tracce, è proprio dal mero dato tecnico-rappresentazionale che occorre partire, per collocare e mettere nella giusta luce della complessiva ragnatela di significati il più (apparentemente) insignificante dettaglio.

LA SEMANTICA DEL NUDO: IL FILM IN UN MINUTO

Della pregnanza di ogni scena, inquadratura o dialogo kubrickiano ne abbiamo prova lampante nel gioco di montaggio realizzato in 2001: Odissea nello spazio, quando l’osso lanciato in aria dalla scimmia si tramuta in navicella spaziale. La medesima abilità di sintesi, sebbene diversamente declinata, viene esibita nei primi sessanta secondi di Eyes Wide Shut: considerando il film nella sua interezza, risulta straordinaria la valenza prolettica dei primi fotogrammi, quando il temperamento e la personalità dei due protagonisti viene delineata con precisione cristallina.

I titoli di testa – limitati al solo nome della produzione, degli attori, del regista e del titolo dell’opera – incorniciano due scene emblematiche. La prima inquadratura di Alice restituisce l’immagine di una donna nell’atto di spogliarsi, all’interno di una camera perfettamente illuminata ed inondata dal calore dei colori tendenti al rosso. Poco più avanti, nella medesima stanza immersa nella penombra bluastra, Bill Harford ci appare per la prima volta in un elegante abito da sera, (quasi) pronto per la festa a casa Ziegler. È già piuttosto semplice ravvisare in queste scene di una diversa, forse opposta disposizione d’animo di Alice e Bill: l’una propensa mettersi a nudo non solo fisicamente, ma anche emotivamente nel corso del film; l’altro, viceversa, quasi imprigionato nel proprio abito e nelle proprie convenzioni (sarà lui a dire: «Alice, lo sai che siamo in ritardo?»), oltre che vittima inconsapevole o mendace del proprio lato nascosto, restituito visivamente dalla semioscurità che ne avvolge la figura.

Tom Cruise

Anche i successivi trenta secondi confermano quanto detto. Alice viene mostrata seduta sul gabinetto nell’atto della minzione, e più avanti nel corso della storia mentre applica il deodorante sulle ascelle: tutti comportamenti cinematograficamente inusuali, e tuttavia autentici e sinceri nella loro semantica profonda. A lei farà eco un Bill inappuntabile, ma che tuttavia, significativamente, le chiederà del proprio portafogli. Un primo, fondamentale indizio della sua personalità, prona a sbandierare quello status (del tutto presunto) da upper-class che sarà a larghi tratti la connotazione più specifica del suo personaggio. Un personaggio, quello di Bill, che già nel suo nome ha metonimicamente legami col denaro (“bill” è il nome delle banconote da un dollaro), e che è reo di quella particolare cecità riguardo a Alice, ritenuta non più degna uno sguardo attento né appassionato.

VIAGGIO AL TERMINE DELL’ARCOBALENO

Ingessato nella sua posa di maschio-predatore, Bill Harford sta facendo il belloccio in compagnia di due modelle incontrate alla festa in casa degli Ziegler, vero epicentro della mondanità upper-class. Bill ha l’aria di un uomo più che propenso alla lascivia, alla quale tuttavia non cede per mere ragioni di perbenismo ipocrita. Quando una delle due modelle gli propone di seguirle «dove finisce l’arcobaleno», il dottore rimane  interdetto. Esattamente, dove finisce l’arcobaleno? Kubrick ci fornisce una prima risposta non appena Bill, chiamato dall’amico Victor a soccorrere una ragazza in sospetta overdose nel proprio bagno, si immerge in una stanza assolutamente priva di luci diegetiche calde. L’illuminazione è infatti in stridente contrasto con il resto di casa Ziegler, immersa nelle luci arcobaleno degli addobbi natalizi.

Nicole Kidman, Sidney Pollack e Tom Cruise

Limitandoci solo all’abnorme numero di volte nelle quali un albero di natale illuminato sta al centro dell’inquadratura (ben quattordici), e consapevoli della maniacalità del regista nella composizione del quadro, potremmo sostenere che l’onnipresenza suoni più che sospetta. L’autentica valenza delle luci-arcobaleno, in effetti, scaturisce proprio dai loro (rari, ma significativi) momenti d’assenza, come nel caso di Somerton ad esempio. L’oscurità della tenuta che ospita l’orgia è tanto pervadente da risultare claustrofobica, ed è simbolicamente acuita da una “cecità” derivata, ossia quella dei partecipanti tutti mascherati e quindi – in teoria – sottratti allo sguardo e alla possibilità di un’identità. Sembra ovvio, a questo punto, che la valenza dell’illuminazione diegetica travalichi la mera nozione di rappresentazione, per diventare una gigantesca e fondamentale metonimia del confine. Le “luci dell’arcobaleno” rappresentano i confini ultimi della socialità ufficiale, visibile, nominabile nel senso etimologico del termine; delimitano le colonne d’ercole del rispetto – per quanto ipocrita – del buon costume, e perché no, anche della falsa morale borghese spesso attaccata da Kubrick. Ciò che sta alla fine dell’arcobaleno non è solo sommerso dall’imperscrutabilità di un ordine massonico, per sua natura invisibile, ma è anche negato all’auto-consapevolezza di Bill, che si troverà spesso costretto a misurarsi con gli ampi coni d’ombra dei suoi più bassi istinti e dei suoi inconfessati moti di gelosia.

LUCI DIEGETICHE COME ASSI DI SVILUPPO EMOTIVO

Tra le scene più vibranti di Eyes Wide Shut ve ne sono certamente tre, nelle quali Bill ed Alice sono protagonisti di altrettanti dialoghi emotivamente devastanti. Che questi scambi di battute avvengano all’interno della camera da letto, spesso associata alla sfera più intima della coppia, non è secondario; come non lo è la collocazione nell’economia filmica, alla quale conferiscono una struttura tripartita, situandosi in corrispondenza di eventi decisivi per la coppia. Ciò che all’interno delle scene colpisce, di là dall’ovvia pregnanza delle parole, sono proprio le luci diegetiche. Le quali, ad uno sguardo attento, sembrano partecipare, “risuonare” della dominante psicologica della scena, configurando i due soggetti presenti come un tutt’uno sottoposto ad uno sviluppo emotivo comune ed unico.

Nicole Kidman e Tom Cruise

Il primo dialogo in camera da letto avviene la notte successiva alla festa in casa di Ziegler, dunque nella parte iniziale del film. Bill ed Alice appaiono immersi in una stanza iper-illuminata, quasi eccessivamente, fastidiosamente, artificialmente dominata da tonalità rossastre che dominano quasi incontrastate. Quasi, perché di tanto in tanto, sullo sfondo, filtra una gelida luce blu proveniente dalle finestre. Va ricordato che i due hanno appena fumato marijuana, ed Alice, in vena di scomode confessioni, confida a Bill quanto questi non poteva mai sospettare: l’ardente passione della moglie nei confronti di un giovane ufficiale di marina. Il blu, il gelo (il turbamento della gelosia? Il dubbio? L’oscurità di un sentimento controverso?) si fa timidamente strada dalle finestre della stanza, iniziando a minacciare la falsa serenità della coppia. Specie Bill, che vede sgretolarsi sotto i piedi un castello di sabbia scambiato per una fortezza di roccia: quello della donna come angelo del focolare domestico.

Il secondo dialogo ha luogo la notte in cui Bill, di ritorno dal rituale orgiastico di Somerton, sveglia Alice da quello che sembra essere un sogno (non troppo) orribile: quello di avere rapporti sessuali non solo col giovane ufficiale di cui sopra, ma anche con tantissimi altri uomini, il tutto ridendo fragorosamente in faccia al povero Bill. L’esperienza onirica di Alice replica quella ben più reale di Bill a Somerton: ma cosa è vero? Cosa è un sogno? E soprattutto: è possibile tracciare una netta linea di demarcazione tra i due ambiti? Sta di fatto che la scena è speculare, ma opposta, a quella descritta in precedenza. Stavolta il cromatismo della camera da letto è invertito: quasi tutto è avvolto dal gelido blu, sintomatico di un non detto, di un rimosso che torna a galla dai meandri più reconditi della psiche della coppia. L’uno, a pochi passi dall’adulterio (ma fallito). L’altra, in pieno adulterio (seppur sognato). È comunque evidente che la coppia, ormai, non può più evitare che il lato oscuro prenda il sopravvento. La calda luce della sera precedente è solo un ricordo. La semi-oscurità è rischiarata dalla luce che fa sporadicamente capolino dal corridoio

Nicole Kidman e Tom Cruise

L’ultimo, breve dialogo, ha luogo la sera successiva, quando Bill è di ritorno da casa di Ziegler e trova la moglie addormentata con accanto la maschera che lui ha indossato la sera del rituale di Somerton. A questo punto il blu inonda tutta la camera da letto, la maschera è realmente gettata e Bill sceglie saggiamente di confessare tutte le sue avventure alla moglie, lasciando che il suo lato nascosto prenda definitivamente il sopravvento, in quella che egli spera sia la più classica delle catarsi. Stavolta, però, non c’è alcuna luce calda a dare speranza o conforto: Bill deve abbandonare ogni maschera di rispettabilità e denudarsi, soprattutto emotivamente.

I CERCHI CONCENTRICI DI KUBRICK

L’ossessione per l’equilibrio e la simmetria (tanto narrativa, quanto estetica in senso lato), unita a narrazioni dallo sviluppo e dalla valenza spesso circolari, rendono i film di Kubrick delle strutture altamente complesse e calibrate al millimetro su rigorosi presupposti. Nella fabula, ciò si traduce in una sostanziale compensazione delle (pur intensissime) forze agenti nel corso dei film. Eyes Wide Shut non fa eccezione: la sua struttura speculare riposa su dettagli, situazioni e coppie di opposti che la testimoniano in maniera evidente.

Tom Cruise

Come sempre, è l’attenzione maniacale al dettaglio che Kubrick chiede al proprio pubblico. Sin dal primo, vero dialogo tra Alice e Bill nella camera da letto, è ovvio che non si tratti di un banale litigio tra due sposi, ma di una discussione quasi antropologica che riguarda «Milioni di anni di evoluzione […] Mentre gli uomini si preoccupano di infilarlo dovunque possono, le donne devono solo pensare alla stabilità della famiglia, alla fedeltà coniugale e a chissà quali altre cazzate!», secondo le parole di Alice. Che in gioco, durante il film, ci sia l’interazione tra il principio maschile e quello femminile è evidente. Meno ovvio, invece, è riflettere sulla meschina figura racimolata dal ”Maschio” in questione, che appare in tutta evidenza in una delle scene apparentemente più insignificanti del film: quella in casa di Marion Nathanson, la figlia del defunto paziente di Bill. Marion, fidanzata con Carl, riproduce una situazione emotiva da poco familiare a Bill, che ha appena assistito attonito alla confessione di Alice riguardo l’ufficiale. Bill si fida(va) di Alice, la quale tuttavia non esita(va) a flirtare con un altro uomo. Il cerchio concentrico tessuto da Kubrick fa sì che Marion, pur fidanzata con Carl, in realtà brami Bill. Che Bill/Carl siano due omologhi è chiaramente mostrato dalla solita inquadratura speculare di Kubrick. Bill e Carl entrano in casa dicendo esattamente le stesse parole («Buonasera, Rosa», rivolgendosi alla governante) e compiendo esattamente gli stessi gesti (quello di togliersi il cappotto porgendolo a Rosa e di bussare alla porta della camera dove c’è Marion al capezzale del padre). Di più, nelle loro fasi iniziali i loro movimenti sono ripresi nel caso di Bill con un carrello a seguire, mentre in quello di Carl con uno a precedere. L’effetto-specchio sarebbe già ovvio così, ma ad ulteriore conferma dell’ipotesi, Carl e Bill si troveranno a dire la stessa identica parola quasi all’unisono, nel momento del congedo (un «Allora…» fin troppo anonimo nell’economia di un dialogo fin troppo estraneo al corpo del film, per non essere sospetto).

Che le forme dello specchio e dei cerchi concentrici si ripetano svariate volte nel corso di Eyes Wide Shut è cosa nota, come testimoniato ad esempio dalle tappe dalle viaggio di Bill che si ripetono, tutte, due volte. E a ben guardare, è la stessa struttura del film ad essere assolutamente speculare nelle sue due parti: che, non a caso, hanno come punto mediano (in senso strettamente cronologico) il momento esatto nel quale Bill, a Somerton, viene spogliato della sua maschera. È proprio in corrispondenza di questo climax che il film raggiunge il suo “punto di ritorno” obbligato, dividendosi in due unità non solo semanticamente, ma cronologicamente pressoché identiche. Bill inizia il suo viaggio – metaforico e non – con indosso una maschera fatta di spocchia maschile, brama di riconoscimento e ostentazione, uniti ad un atteggiamento da vero e proprio consumatore/acquirente di quell’unico bene che, invece, non è acquistabile: l’autentica, bruciante, irrefrenabile passione. Una volta smascherato, Bill compirà la seconda parte del suo viaggio, quello di ritorno, con molta meno spocchia, annientato nell’ego ed umiliato dalla confessione di colui il quale non è nemmeno riuscito ad acquistare ciò voleva con l’ausilio della maschera carnevalesca, un uomo nei confronti del quale anche il fato è stato avverso. Che sia stato tutto un sogno o una dura realtà, importa poco al Kubrick esistenzialista. Ciò che conta non è la supposta essenza, ma i concreti e verificabili risultati prodotti da una qualsiasi evenienza, reale o immaginaria. In questo senso, Bill approda lì dove tutto era partito, sebbene, naturalmente, con precondizioni radicalmente mutate. All’inizio della vicenda era Alice a cercare conferma di sé negli occhi di Bill, chiedendogli un giudizio sulla sua mise. Adesso, invece, è Bill a chiedere ad Alice il da farsi, e la risposta chiude una volta per tutte il cerchio: «Scopare!». Ironia della sorte: la storia si conclude con un mero riferimento sessuale, che è e rimane tale per tutta la durata del film. Un’opera, quella di Kubrick, che insiste tanto sull’atto sessuale ma nella quale nessuno fornica mai davvero, probabilmente nemmeno a Somerton. È qui che si potrebbe innestare un’ulteriore lettura alla luce dell’antropologia delle religioni, che tanta luce ha gettato sugli antichi rituali religiosi e sessuali, e che tanti preziosi contributi ha dato alla teoria performativa del linguaggio. Ma questo, ahinoi, sarebbe davvero spingersi troppo oltre.

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1 Comment

1 Comment

  1. Giuseppe Piazza

    2 Novembre 2019 at 02:04

    Complimenti.

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