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Bradley Cooper e Cate Blanchett

Cinema

La fiera delle illusioni, l’impopolarità del disvelamento secondo Guillermo del Toro

L’ultimo film del regista messicano, un compendio di noir e thriller, è una storia di brutale riscatto che sensibilizza a disciplinare le priorità che decidiamo di valorizzare nella nostra vita, laddove spesso il bello si maschera da brutto e viceversa.

Tempo di lettura: 6 minuti

Il 27 gennaio è finalmente approdato nelle sale cinematografiche La fiera delle illusioni (in lingua originale Nightmare Alley), che segna il ritorno del regista messicano sul grande schermo dopo La forma dell’acqua, con il quale, quattro anni fa, sbancò clamorosamente agli Oscar nelle categorie di Miglior film, Miglior regia, Miglior colonna sonora e Miglior scenografia.

La pellicola di Guillermo del Toro, tratta dall’omonimo libro del 1946 di William Lindsay Gresham di cui fu già realizzato, appena l’anno successivo, un adattamento cinematografico ad opera di Edmund Goulding, è un’opera cinematografica che potremmo identificare come scompagnata in tre atti, dalla matrice ciclica di stampo beffardo: la vita del protagonista è un pungente saliscendi che, con andamento amaramente gaussiano, dopo una prima parentesi esistenziale dimessa e meschina ed una seguente esplosione di fortuna lo condurrà ad una condizione di miseria ancora più infamante di quella di partenza.

La fiera delle illusioni

L’ossatura triangolare dell’opera

Si dice che quando guardi un film e non t’immagini altri ad interpretare il ruolo del protagonista, significa che il lavoro dell’attore è da considerarsi più che riuscito. Dinanzi ad un voluminosissimo panorama attoriale che prolifica star dall’oggi al domani – come si suol dire -, e che dunque di certo non è manchevole di materia prima da selezionare, nessuno avrebbe avuto la stessa impattante resa sullo schermo di Bradley Cooper. Lo Stan da lui interpretato è un uomo fortemente ambiguo, ma capace di mascherare questa costante equivocità attraverso una ratio e un autocontrollo da manuale; è una personalità camaleontica e mutevole, come (meravigliosamente) mutevole è stato il registro mimico e prossemico impiegato dall’attore per interpretarne la personalità sfaccettata e spregevolmente poliedrica.

Cate Blanchett e Bradley Cooper

Da indubbio contraltare fungono le due figure femminili, la psicologa Lilith (Cate Blanchett) e la giostraia Molly (Rooney Mara), che rappresentano quanto di più agli antipodi possa esistere: la prima è una donna ricca, spregiudicata, sicura di sé e del suo charme, avida di potere, denaro, conoscenza; la seconda è umile, ingenua, semplice e smaliziata, una persona che sa godere appieno di quanto possiede senza desiderare altro, indipendentemente da se sia o meno alla sua portata. Esse non solo coesistono nell’universo di Stan, ma coesistono persino nel suo Es freudiano, rappresentando paradossalmente i poli opposti della personalità del protagonista, che nasce umile ma coltiva voracemente delle ambizioni audaci e folli, che è remissivo e sottomesso ma segretamente convinto di essere migliore degli altri.

La fiera delle illusioni

Proiettato verso il più avvenente e speranzoso dei futuri, Stan è però paralizzato da un passato morboso che inconsapevolmente continua a carezzare – pur rifiutandolo categoricamente – fosse solo restando con Molly, nella quale rivede quella parte innocente di sé che l’anaffettività paterna e più in generale la crudezza della vita gli hanno strappato a morsi troppo presto. Lilith e Molly sono, se analizzate al microscopio, nient’altro che il riflesso pedissequo ma disgiunto di quella ormai intramontabile e cavillosa dicotomia tra bene e male che, quasi sempre, incarcera l’essere umano, condannandolo ad un’esistenza di pene e sofferenze. Sembra dunque che Stan racconti di un uno che è anche trino, nella misura palpabile di quanto sia connesso e al contempo vincolato alle due donne, entrambe proiezione (inconscia) delle sue paure e dei suoi bisogni così come dei suoi pregi e difetti.

Il disvelamento emotivo dell’essere umano

Non possiamo di certo definire La fiera delle illusioni una pellicola intimista, su questo non c’è ombra di dubbio; eppure il racconto offre allo spettatore, sparsi lungo la sua complessiva visione, numerosi spunti di riflessione che, se sommati, identificano l’essenza di una storia tanto banale quanto assai affascinante. Il nocciolo attorno al quale ruotano le vicende è in sostanza il desiderio – che si palesa allo stesso tempo anche sotto forma di paura – di essere visti dall’altro per ciò che si è. Ci si sente riconosciuti e valorizzati, ma anche esposti e vulnerabili. Che lo si faccia da un imbonitore di fiera o in una stanza di terapia, si è dinanzi alla stessa dinamica propulsiva che la maggior parte delle volte è finalizzata a colmare crepe ed abissi personali.

La fiera delle illusioni

Non meraviglia che a prendere il sopravvento su Stan sia proprio una psicologa, e non tanto perché disponga di capacità ampliate e rodate nella comprensione dell’altro, quanto perché nonostante l’imparzialità di cui dovrebbe farsi portavoce tramite la sua professione, incarna come qualsiasi essere umano la necessità impellente di scoprire e, a sua volta, farsi scoprire – in questo caso persino amplificati all’eccesso. L’importanza del non-detto diventa centrale, sino a divenire paradossalmente l’unico strumento di comunicazione, tra i personaggi e tra i personaggi e lo spettatore. Nonostante il silenzio dei primi tempi, è evidente l’irrequietezza di Stan (palesata tecnicamente da colori forti e ambientazioni tenebrose), causata dal desiderio di raccontare e raccontarsi per portare nel mondo la sua versione personale di sé e della vita.

Rooney Mara e Bradley Cooper

Le persone hanno una voglia disperata di dirti chi sono”, afferma Pete ad inizio film, quando racconta dei giochi di mentalismo che soleva fare in quel di Parigi anni prima. Questo bisogno viscerale, per quanto possa avere una genesi sincera e disinteressata (e non sempre è così) è scomodo, impopolare, e a lungo andare si rivela essere un arma a doppio taglio, capace di impiastricciare le relazioni e la vita altrui e creare conseguenze al limite del gestibile.

L’ermeneutica moral(ista)e de La fiera delle illusioni

Molti hanno già etichettato La fiera delle illusioni un film abbastanza lontano dagli stereotipi stravaganti e bizzarri del cinema di del Toro: per quanto siano presenti dei freaks canonici – come nani e uomini ultra-pelosi – sono pochi e soprattutto estremamente marginali. La brutalità e l’efferatezza, tuttavia, ci sono tutte: siamo dinanzi ad un parallelismo per niente velato per il quale, a questo giro di corsa, la “bestia” di turno è più umana dell’umano stesso, ed il grottesco sa celarsi abilmente dietro un volto (solo apparentemente) angelico, di chi non solo commette atti eticamente scorretti, ma lo fa ripetendosi di agire secondo una logica appropriata, nonostante quella pioggia costante che scroscia, a simboleggiare un desiderio profondo di lavare via il senso di colpa.

La fiera delle illusioni

La cattività classica, che quasi sempre si misura nella segregazione entro le quattro pareti di una gabbia, diventa qui una cattività emotiva, la cui spazialità è interiore e non prevede limiti, se non vi si pone adeguatamente rimedio. Stan è martello e incudine, prigioniero e schiavo di sé stesso, responsabile e vittima della propria sorte altalenante e nefasta, soggiogato ad una dilaniante servitù delle sue più incontrollabili bramosie. La smania bruciante di riscatto, qui fagocitata malamente da rancore, rabbia e frustrazione, alla fine scotterà in misura di gran lunga maggiore della permanenza nella condizione umile e umiliante di partenza, portandolo a retrocedere nella scaletta sociale persino più indietro della sua posizione iniziale.

Fa sorridere che La fiera delle illusioni sia stato vietato (ai minori di quattordici anni) per i suoi contenuti visivamente crudi e cruenti, quando la vera crudezza risiede, in realtà, nella morale di una bellissima favola piena di speranza e fiducia finita molto male: è una storia che sensibilizza, pur non volendolo fare direttamente con questa finalità, a disciplinare le priorità che decidiamo di valorizzare nella nostra vita, laddove spesso il bello si maschera da brutto e viceversa.

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La fiera delle illusioni – Nightmare Alley
trama: Stan, giovane e piacente imbonitore da fiera, carpisce i segreti del mestiere a Zeena, compagna di un vecchio mago, e se ne serve per sbarcare il lunario con finti esperimenti di spiritismo. Nelle sue esibizioni è aiutato dalla dolce Molly che è innamorata di lui. Gli sarà fatale l’incontro con Lilith Ritter, una psicologa di pochi scrupoli, che stringe con lui un accordo per truffare i suoi facoltosi clienti. Pubblicamente smascherato da Molly, l’uomo dovrà porre fine ai suoi imbrogli mentre la gelida Lilith, rivelando una natura criminale, non esiterà a sbarazzarsi di lui. Finito in una spirale autodistruttiva e tormentato dai sensi di colpa, Stan dovrà tornare al circo dove, costretto a esibirsi come un fenomeno da baraccone, sarà straziato da incubi spaventosi fino a perdere la ragione.
regia: Guillermo del Toro
sceneggiatura: Guillermo del Toro, Kim Morgan
con: Bradley Cooper, Cate Blanchett, Rooney Mara, William Dafoe, Richard Jenkins
durata: 150 minuti


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1 Comment

1 Comment

  1. Alberto

    6 Febbraio 2022 at 22:19

    Le ultime 3 righe e mezzo della trama sono frutto di clarividenza da immedesimazione compulsiva…

    Il relatore si è immedesimato in Stan, e immagina un finale che banalizza la brillante chiusura del film.

    Se lil finale é il primo piano che ho visto alla chiusura del film ieri sera, consiglierei rettificare la chiusura del riassunto della trama.

    Comunque: film brillante, che migliora con il passare del tempo lasciandolo riposare nella penombra, come il buon vino!

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