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Jules e Jim

Anniversari

Eros e Thanatos: Jules e Jim di François Truffaut

Nel gennaio di 60 anni fa usciva il terzo film del regista francese, uno dei manifesti della Nouvelle Vague.

Tempo di lettura: 10 minuti

«Il triangolo no, non l’avevo considerato», cantava Renato Zero nell’Italia (per certi versi ancora perbenista) degli anni ’70. Un argomento, quello delle relazioni amorose “triangolari” (lui, lei, l’altro, o viceversa), non estraneo al cinema. Talvolta platonico, in altre occasioni carnale, il cosiddetto menage à trois è stato argomento di tanti film (più e meno recenti), ma certamente il più significativo tra questi è Jules e Jim (1962) di François Truffaut. Tratto dall’omonimo romanzo di Pierre Roché (il suo esordio letterario, a 75 anni!), non stupisce che il film all’epoca fu osteggiato da una parte dell’opinione pubblica. D’altronde, in un’epoca già in fermento culturale ma non ancora caratterizzata dalla futura “rivoluzione” (ci vorrà ancora qualche anno) vedere sul grande schermo una storia d’amore (e morte) descritta senza alcun piglio morale (Truffaut non giudica, si limita ad osservare) dev’essere stato abbastanza sconvolgente.

Jules e Jim
Henri Serre (Jim), Jean Moreau (Catherine) e Oskar Werner (Jules) in Jules e Jim

E sconvolgente Jules e Jim lo è ancora oggi, anche se per motivi ben diversi. Sforzandoci, da spettatori del nuovo millennio, forse riusciamo ancora a percepire l’imbarazzo provato dalle generazioni passate di fronte al film; ma è un aspetto sul quale non siamo propensi, oggi, a concentrarci più di tanto. A sconvolgerci, a distanza di 60 anni dalla sua uscita (venne proiettato la prima volta nelle sale francesi a fine gennaio) è la sua ancora percettibile (a più di mezzo secolo) modernità. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di una prerogativa del primo cinema di Truffaut. D’altronde, la stessa cosa non si può forse dire de I 400 colpi? Certamente, ma in Jules e Jim tale caratteristica stupisce maggiormente perché si tratta – di fatto – di un film in costume, non ambientato in una realtà conosciuta dal regista (sappiamo che il film con protagonista Antoine Doinel era in parte autobiografico), bensì tra gli anni ’10 e ’20 del ‘900. Un’età lontana nel tempo, ma che Truffaut racconta senza particolare interesse storico concentrandosi soprattutto sui suoi personaggi e i sentimenti senza tempo che li animano.

Il giovane turco e l’anziano scrittore

Tutti i cinefili sanno che la Nouvelle Vague ha rivoluzionato la storia del cinema (e il modo di fare cinema). Anche in questo caso, come lo fu per il Neorealismo, è difficile considerare questa “nuova ondata” che travolse il cinema tra la fine degli anni ’50 e ’60 – ma generatasi già negli anni precedenti sulle pagine dei «Cahiers du Cinéma» diretti da André Bazin -, come un vero e proprio movimento. Si trattò piuttosto di una convergenza di pensieri accomunati da un’idea sovversiva: l’estetica filmica doveva essere riformata. Un presupposto che non coincise con l’affermazione di uno stile univoco. Seppur caratterizzati da elementi comuni (in particolare, la maggiore libertà filmico-grammaticale), i film degli autori della Nouvelle Vague furono sempre molto diversi tra loro; e il divario stilistico dei singoli registi con il tempo accrebbe sempre più (tra chi perseverò con lo sperimentalismo, come Jean-Luc Godard, e chi invece si rifugiò in un cinema – quantomeno all’apparenza – piccolo-borghese, come Claude Chabrol o lo stesso Truffaut).

Jules e Jim
Una scena di Jules e Jim

I critici intransigenti, divenuti poi registi e sceneggiatori, vennero però sempre considerati adepti di una tendenza, tanto da essere definiti “giovani turchi” per le loro posizioni controcorrente. Truffaut fu senza dubbio uno degli animatori della rivoluzione che avrebbe travolto nel giro di pochi anni l’intera industria cinematografica; non a caso, lui e Godard furono ingaggiati da Hollywood per supervisionare la sceneggiatura di Gangster Story (1967) di Arthur Penn. In prossimità della fine degli anni ’50, il critico Truffaut cominciò a caldeggiare l’idea di cimentarsi nella regia cinematografica. Gran parte delle sue idee estetiche erano già contenute nei suoi articoli polemici, scritti con passione e alimentati da una conoscenza approfondita del cinema (come forma d’arte e come industria). Sappiamo tutti come andò a finire: dopo aver diretto il mediometraggio Les Mistons (1957) – una sorta di prova generale -, il neo regista esordì nel lungometraggio con I 400 colpi.

Eppure, non sarebbe dovuto essere il primo capitolo delle (dis)avventure di Antoine Doinel a caratterizzare l’esordio di Truffaut. Si dà il caso, infatti, che qualche anno prima – parliamo della metà degli anni ’50 – l’allora critico cinematografico si imbatté casualmente in un romanzo che lo colpì per tre motivi: il titolo, il fatto che il suo (misconosciuto) autore lo avesse scritto in tarda età, e la purezza dell’insieme (pur raccontando situazioni scabrose). Parliamo, ovviamente, di Jules e Jim di Pierre Roché (attualmente edito in Italia per i tipi Adelphi). Ancora prima di riflettere su un possibile adattamento del romanzo, Truffaut intraprende una conversazione epistolare con lo scrittore a seguito di un articolo pubblicato sulla rivista «Arts» nel quale il critico elogiava il libro. Ne nasce un rapporto che legherà i due per diversi anni. Truffaut informa Roché del suo desiderio di esordire alla regia, Roché si dice entusiasta e lo sprona a tentare. In seguito alla presentazione di Les Mistons, ancora lo scrittore scrive al neo regista congratulandosi con lui.

Jules e Jim
Una scena di Jules e Jim

È in quel momento, quando ormai sente che il suo esordio nel lungometraggio è imminente, che Truffaut pensa di adattare Jules e Jim per il grande schermo. Lo frena però la complessità del racconto e la paura di non essere ancora pronto per un’opera tanto ambiziosa. Propende allora per un film più personale, legato alle sue esperienze di vita vissuta. Ma non abbandona l’idea di trasporre il romanzo di Roché. Sul set de I 400 colpi fa leggere il libro all’attrice Jeanne Moreau, che nel film ha un piccolo ruolo. Lei è entusiasta. Truffaut informa Roché di aver trovato la protagonista e le manda una foto della Moreau. Lo scrittore chiede al giovane “amico di penna” di conoscerla, ma muore pochi giorni dopo, non avendo né la possibilità di conoscere l’attrice francese, né di vedere con i propri occhi il capolavoro che Truffaut riuscirà a realizzare dalla sua opera letteraria.

Un film (anti) borghese

Vi è un regista più amato dai cinefili di Truffaut? La domanda sporge spontanea di fronte all’ammirazione plurigenerazionale nei confronti del suo cinema. Dopo tutto, come potrebbe essere altrimenti? Il cinema del regista francese testimonia un amore sconfinato nei confronti della settima arte, celebrata esplicitamente in Effetto notte (1973). Eppure, Truffaut ha avuto anche dei detrattori. Per molto tempo, infatti, una spada di Damocle ha minacciato il cinema dell’autore, reo – per dirla alla Rino Gaetano – di essere partito incendiario e fiero ma di avere ben presto abbandonato i panni del rivoluzionario per indossare quelli del pompiere. Molti degli estimatori della prima ora, inebriati dalla libertà stilistica rintracciabile nel suo film d’esordio e nel successivo (talvolta colpevolmente dimenticato) capolavoro Tirate sul pianista! (1960), non perdonarono a Truffaut il suo (a detta loro) progressivo imborghesimento.

Jules e Jim
Una scena di Jules e Jim

Così, Jules e Jim è stato da molti recepita come un’opera conservatrice capace di minacciare gli stilemi tipici della Nouvelle Vague. L’urgenza di raccontare storie nel presente, tipica dei giovani cineasti francesi, viene in un sol colpo messa in discussione da Truffaut, il quale sceglie di narrare una storia ambientata negli anni precedenti e successivi alla Prima Guerra Mondiale. Come risaputo, il film si concentra su rapporto d’amicizia tra il francese Jim (Henri Serre) e il tedesco Jules (Oskar Werner), e su quello dei due amici con la conturbante Catherine (la già citata Moreau). Un melodramma in costume, dunque, che racconta la storia d’amore tra tre individui che inizia nella Parigi degli anni ’10, sopravvive alla guerra (che vede Jim e Jules su due fronti opposti), evolve e trova una sua tragica conclusione nell’immediato dopoguerra.

Leggendone la sinossi, se non fosse per il tema, scabroso per l’epoca, del menage à trois, affrontato oltretutto senza alcun moralismo, Jules e Jim sembrerebbe un film in costume più assimilabile al cosiddetto “cinema di papà” (tacciato dallo stesso Truffaut di impersonalità) che non a quello contemporaneo di cui lo stesso regista era uno dei massimi esponenti. La visione del film scioglie però ogni dubbio circa la volontà del suo autore. Realizzando quello che appare una rivisitazione del classico di Michael Powell e Emeric Pressburger Duello a Berlino, Truffaut compie un vero e proprio miracolo. Destruttura la narrazione dialogando continuamente con il romanzo di partenza, e non avendo paura di ricorrere laddove necessario a una voce over che più che accompagnare la storia sembra determinarla.

Jules e Jim
Una scena di Jules e Jim

Questo gli permette di contrarre e dilatare la narrazione a piacimento, donando al film un ritmo sincopato, fatto di improvvise accelerazioni (la rapidità che caratterizza l’incipit e il segmento dedicato alla guerra) e significativi rallentamenti (le due macro sequenze dedicate rispettivamente alla vacanza al mare e alla visita post bellica di Jim a casa dei coniugi Jules e Catherine). Tali “alterazioni” del racconto non sono le uniche licenze autoriali prese da Truffaut. Anche a livello visivo il film testimonia una modernità di linguaggio, non facendo nulla per nascondere l’artificio cinematografico. Così, oltre all’utilizzo della macchina da presa a mano, è bene sottolineare anche il ricorso al fermo immagine che arresta per tre volte il primo piano di una sorridente Catherine (sorta di trittico che mette una volta di più in evidenza il fascino primigenio che la donna emana nei confronti dei due amici). Mentre Truffaut non sembra preoccupato di contravvenire alle regole del cinema classico, come testimonia lo scavalcamento di campo che contraddistingue una delle sequenze bucoliche del film: Jules, Catherine e Jim sono seduti su un prato adiacente alla casa della coppia; la prima inquadratura li riprende in quest’ordine, da sinistra verso destra, mentre la successiva ribalta la prospettiva.

Sono tutte soluzioni – quelle adottate a livello narrativo e visivo – che mettono in evidenza la componente schizofrenica di un film che – come dicevamo all’inizio – oggi stupisce soprattutto per la libertà estetica che lo contraddistingue. È un film di contrasti, Jules e Jim: la splendente fotografia in bianco e nero di Raoul Coutard, che illumina una storia di per sé torbida; il carattere ambivalente dei personaggi (basti pensare ai mutamenti del personaggio di Catherine durante il corso della narrazione); la drammaticità del racconto che si discioglie in punte di sottile ironia; per non parlare dell’interessante contrappunto musicale (ad opera di Georges Deleure), che sovente più che accompagnare la narrazione la distorce (si pensi alla sequenza conclusiva al cimitero, dove Jim dà l’ultimo saluto alla moglie e all’amico, contraddistinta da una sonorità allegra). Un film incentrato su una storia d’amore folle; la prima, per Truffaut, di una lunga serie.

L’amour fou secondo Truffaut

«Né con te, né senza te». È la frase che la signora Jouve, gestore del circolo di tennis di un paesino nei pressi di Grenoble, suggerisce come epitaffio da incidere sulla tomba degli amanti Mathilde e Bernard in La signora della porta accanto (1981). Una frase che avrebbe potuto proporre anche Jim per le tombe di Jules e Catherine, e che ben descrive quel desiderio assoluto (il più delle volte malsano) che coincide con l’amor fou, l’amore folle, passionale, irrazionale che conduce chi ne è vittima a perdere il lume della ragione e a compiere – di fronte alla sua impossibilità – gesti inconsulti: ad esempio, come fa Catherine, uccidersi e uccidere Jules (reo di volersi emancipare da lei) facendo precipitare la loro macchina nell’acqua (verrebbe da dire, torbida) di un fiume di campagna.

Jules e Jim
Una scena di Jules e Jim

Se per Antoine Doinel l’amore era ancora un sentimento platonico e pre-adolescenziale rivolto verso le foto di bellissime attrici appese nel foyer di un cinema (per la cronaca, le immagini che il ragazzo ruba ritraggono Harriet Andersson in Monica e il desiderio di Ingmar Bergman), per i protagonisti di Jules e Jim l’amore è un sentimento totalizzante (quello per Catherine, ma anche quello che i due amici provano l’uno verso l’altro), ma allo stesso tempo mortifero. Il film rappresenta l’archetipo del genere secondo Truffaut. Al suo interno si rintracciano tutti quegli elementi che caratterizzeranno le sue pellicole successive. Eros e Thanatos, amore e morte. Sono i due poli che si attraggono irrimediabilmente e che ritroviamo, oltre che in Jules e Jim, nei successivi La mia droga si chiama Julie (1969), Le due inglesi (1971, sempre tratto da un romanzo di Roché), Adele H. – Una storia d’amore (1975), La camera verde (1978) e il già citato La signora della porta accanto.

Nel film del 1962 la morte è evocata costantemente durante tutto l’arco del racconto. Il vitalismo che contraddistingue l’esistenza (per certi versi spensierata) degli amici Jim e Jules – giovani intellettuali un po’ bohémien – sembra amplificarsi con l’entrata in scena del personaggio di Catherine. La prima parte del film è contraddistinta da scene di pura goliardia (la scelta della donna di andare in giro vestita da uomo – si farà chiamare Thomas – e la corsa a perdifiato sul ponte), ma l’idillio ha vita breve. Già in una sequenza, Jules scopre nella borsa di Catherine – trasferitasi a casa di Jim – del veleno: «Per gli uomini che mentono», dice lei. Ma pensiamo anche alla solare sequenza della vacanza al mare dei tre. La casa bianca che li ospita, il sole caldo che inonda le inquadrature di una luce cristallina, l’ombra refrigerante della pineta situata tra l’abitazione e la spiaggia, il suono quieto delle cicale. Una pace che ben presto verrà spazzata via dall’imminente conflitto bellico.

Jules e Jim
Una scena di Jules e Jim

Il nuovo incontro tra Jim, Catherine e Jules dopo la guerra induce lo spettatore a domandarsi: come potrà andare a finire? Sappiamo che Catherine ha sposato Jules ma forse è sempre stata attratta da Jim, che tradisce Jules con un altro uomo e che l’irruzione di Jim nella vita della coppia comporterà quasi sicuramente uno sconvolgimento. Di fatto, è proprio quanto accade. Caldeggiato nella prima parte, nella seconda il menage à trois diventa effettivo. Tornare indietro è praticamente impossibile. Nonostante tutto, Jim ci prova. Dopo aver acconsentito a costruire con Catherine e Jules una nuova famiglia (allargata), trasferendosi in campagna (luogo che mai come in questo film ha connotazioni sinistre), Jim ha un ripensamento. Il ritorno temporaneo a Parigi lo induce a non vestire i panni della preda destinata a cadere nella rete ordita da Catherine (e dal fato). Ma sfuggire al proprio destino è impossibile. «Né con te, né senza di te». La frase riecheggia, come fosse una dolente litania funebre, nella penultima sequenza del film, che descrive la morte dei due amanti. E, dopo la cerimonia funebre, a Jules non rimane altro da fare che allontanarsi da solo, affrancarsi da amico e moglie, nella speranza di ritornare – almeno lui, unico sopravvissuto – alla vita.

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