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Anniversari

Gli anni in tasca: un commovente inno all’infanzia

45 anni fa usciva nei cinema francesi uno dei film più emozionanti ma inspiegabilmente sottovalutati di François Truffaut.

Tempo di lettura: 9 minuti

Se ci chiedessero, a bruciapelo, il titolo del primo film dedicato all’infanzia che ci viene in mente, la maggior parte di noi – cinefili, s’intende – risponderebbe senza alcun dubbio: I 400 colpi (1959) di François Truffaut. Il regista francese è stato uno dei più partecipi cantori di quell’epoca della vita ormai così remota per molti di noi. Non che abbia diretto chissà quanti film con protagonisti bambini o ragazzi. Ma, quando l’ha fatto, ha lasciato il segno. I 400 colpi è ancora oggi un film capace di scuotere gli animi. La commovente storia di Antoine Doinel – personaggio che ritornerà ciclicamente nel cinema del regista, sempre interpretato dall’attore feticcio Jean-Pierre Léaud – racchiude l’essenza stessa dell’infanzia (con vista sull’adolescenza): la sua poesia, la sua innocenza, ma anche il suo tacito dolore.

François Truffaut insieme ai piccoli interpreti di Gli anni in tasca
François Truffaut insieme ai piccoli interpreti di Gli anni in tasca

Il primo lungometraggio di Truffaut, oltre ad essere il film manifesto, insieme a Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard, della neonata Nuovelle Vague, è un’opera sincera che bandisce ogni retorica. Nell’arco della sua carriera, il regista francese tornerà solo altre due volte a focalizzare la sua attenzione sulla fanciullezza. Prima con Il ragazzo selvaggio (1970), il cui tema principale però è il rapporto stridente tra civiltà e stato di natura, e poi con Gli anni in tasca (1976). Quest’ultimo è un film profondamente in antitesi con le opere coeve del suo autore: il dramma Adele H. – Una storia d’amore (1975), che lo precede, e l’intimista L’uomo che amava le donne (1977), che lo segue. Uscito quarantacinque anni fa in Francia, Gli anni in tasca è ancora oggi una delle rappresentazioni più vivaci, sfaccettate e commosse dell’infanzia. E, al contempo, l’opera più radicalmente politica di Truffaut.

Antoine e i suoi fratelli

I 400 colpi racconta, con sofferta partecipazione, di un’infanzia negata. Il giovane Antoine, incompreso dai genitori, bighellona in una realtà che lo respinge continuamente. Vaga per le strade deserte di Parigi, entra di straforo in qualche cinema, si appropria indebitamente della foto promozionale di un film – Monica e il desiderio di Ingmar Bergman (1953) -, ma solo perché ritrae una giovane discinta. Ruba una macchina da scrivere nell’ufficio del padre per rivenderla, ma viene scoperto e denunciato dallo stesso genitore. Per lui si aprono così le porte del riformatorio, da cui fuggirà per ritrovarsi solo in riva al mare. Truffaut prende spunto dal proprio vissuto per descrivere la tragica parabola di un preadolescente condannato all’infelicità.

Quando, a distanza di vent’anni, il regista torna a raccontare la giovinezza in Gli anni in tasca, il registro che adotta è differente. Il dramma sconfina nella commedia; il disincanto, seppur presente, è contaminato dalla meraviglia. Il motivo di questa “conversione” è probabilmente imputabile al tempo e al suo scorrere. Quando dirige I 400 colpi, Truffaut è un quasi trentenne che non ha ancora fatto i conti con il proprio turbolento passato; nel 1976, invece, il regista è un uomo di mezza età, nonché padre (le due figlie, Éva e Laura, hanno anche una piccola parte nel film). Non a caso lo stesso Truffaut all’epoca definì Gli anni in tasca un “film da nonno”, mentre giustamente Paolo Mereghetti nel suo Dizionario evidenzia come il regista sia «sempre più lontano anagraficamente dal mondo dell’infanzia ma profondamente partecipe del suo spirito».

Gli anni in tasca
Una scena di Gli anni in tasca

Gli anni in tasca esalta la travolgente vitalità dell’infanzia, recuperando l’insegnamento del Jean Vigo di Zero in condotta (1933), già citato visivamente, ma non spiritualmente in I 400 colpi. Da questo punto di vista, la sequenza iniziale del film è una vera e propria dichiarazione d’intenti. Un’orda di fanciulli corre a rotta di collo lungo gli stretti e pendenti viottoli della cittadina di Thiers, Puy-de-Dôme, Francia Centrale; il suo moto scoordinato crea una gioiosa confusione che ha il potere di animare le strade del soporifero centro urbano. Se in passato quelli di Antoine erano stati per Truffaut gli unici occhi attraverso i quali osservare l’infanzia, in Gli anni in tasca il regista si affida a un racconto corale per narrare molteplici storie: alcune solo accennate, altre maggiormente approfondite (ad esempio, quelle di Patrick e dello sfortunato Julien).

Proprio alla luce della scelta di riconsegnare all’infanzia il suo positivo dinamismo, Truffaut rifugge abilmente il rigido schema del film a episodi per comporre una vera e propria sinfonia. La narrazione tende volutamente all’accumulo, di situazioni e personaggi; le ellissi, più o meno vertiginose, si susseguono lungo tutto l’arco della narrazione. Truffaut pedina con la macchina da presa i suoi piccoli interpreti, consapevole di non poterli costringere a seguire un copione prestabilito. Per questo motivo, accondiscende all’improvvisazione pur di catturare la realistica spontaneità dei loro gesti.

Gli anni in tasca
Una scena di Gli anni in tasca

Anche per questi motivi Gli anni in tasca è un film a misura di bambino, che adotta coscientemente il punto di vista dei più piccoli per celebrarne le gesta: marachelle, primi amori, sano cameratismo. L’atmosfera gioiosa e scanzonata che all’apparenza contraddistingue l’opera non deve però trarre in inganno. La vita dei bambini di Thiers non è tutta rose e fiori. Perché essere bambini non vuol dire essere esenti dal dolore e dalla tristezza; perché la vita, quando colpisce, non guarda in faccia a nessuno, neppure ai più piccoli. E Truffaut lo sa molto bene.

Gli adulti ci guardano?

Nel 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale, Vittorio De Sica realizza I bambini ci guardano, un’opera capace di riflettere sulla nefasta influenza degli adulti sui bambini (e per quei tempi, ancora memori di lupetti e balilla, non era così scontato). Anche nel film di Truffaut, come in quello di De Sica, troviamo la rappresentazione di due mondi distinti condannati all’incomunicabilità: quello dei ragazzi e quello degli adulti. Da par suo, Gli anni in tasca denuncia l’emergere di una frattura netta ed insanabile tra le generazioni che sovente deflagra in forme di becero autoritarismo e irresponsabile cecità (da parte degli adulti, ovvio). I bambini, come di prassi, guardano i più grandi perché ne sono incuriositi e attratti (Patrick si infatua addirittura della procace madre di un suo compagno di classe). Ma gli adulti che tipo di atteggiamento hanno nei confronti dei bambini?

I grandi sembrano pressoché indifferenti a quanto accade ai più piccoli. Se Julien (Philippe Goldmann), picchiato dalla madre e dalla nonna, è colui che paga il prezzo più alto, anche i suoi compagni di scuola devono fare i conti con ingiustizie e soprusi di vario genere. Sylvie (Sylvie Grezel), ad esempio, viene segregata in casa dal padre (ispettore di polizia) e dalla madre solo perché vuole portare con sé al ristorante una borsetta ormai sdrucita. Ma i genitori non hanno fatto i conti con il temperamento della figlia. Sylvie, infatti, anziché accettare passivamente l’autoritaria decisione patriarcale, si ribella. Prende un megafono, apre la finestra dell’appartamento che dà sul cortile condominiale, e comunica al vicinato di essere stata abbandonata e di avere fame. I dirimpettai, sconcertati, le manderanno un paniere pieno zeppo di leccornie, anche grazie all’intercessione degli iperattivi fratellini De Luca (Claudio e Frank De Luca).

Gli anni in tasca
Una scena di Gli anni in tasca

Ancora più emblematico è quanto accade al piccolo Gregory. Anche lui lasciato solo in casa dalla madre (Nicole Félix), si arrampica su una finestra (aperta!), giocherella con il proprio gattino e poi precipita dall’ultimo piano del palazzo in cui abita, sotto gli occhi attoniti degli impotenti passanti. Potrebbe essere una tragedia – o meglio, dovrebbe esserlo: come sopravvivere a una caduta del genere? -, eppure Gregory si rialza come se nulla fosse, più divertito che spaventato. La scena, oltre a sottolineare nuovamente la noncuranza degli adulti nei confronti dei bambini, segna dapprima un significativo turning point estetico-narrativoil registro realista, fin a quel momento imperante, viene contaminato da elementi surreali -, e poi si fa carico di un messaggio che Truffaut desidera arrivi chiaramente agli spettatori: i bambini sono resistenti, si fanno scivolare le cose addosso, ma ciò non vuol dire che non patiscano.

Paradossalmente, ma non casualmente, a seguito dell’incidente, nessuno a Thiers parla di miracolo. Appresa la notizia, il maestro Richet (Jean-François Stévenin) e la moglie (Virginie Thévenet), che si sono da poco trasferiti nella palazzina dove abitano Gregory e la madre, parlano dell’accaduto quasi con nonchalance; non ne riconoscono la straordinarietà ma (significativamente) l’esemplarità. «I bambini sono resistenti», dice la signora Richet, «sbattono dappertutto, contro la vita, ma hanno un angelo custode, e poi hanno la pelle dura». Mai parole pronunciate furono, per Truffaut, più vere. Basti osservare lo stoicismo che Patrick (Georges Desmouceaux) dimostra tutti i giorni. All’apparenza un ragazzino come tanti altri, estroverso quando è in compagnia degli amici e timido nel momento in cui deve approcciarsi con le ragazze; eppure, nonostante la sua vitalità, Patrick dalla vita ha ricevuto più schiaffi che carezze. Non ha una madre (è morta, oppure lo ha abbandonato?), mentre il padre (René Barnérias), affetto da una malattia degenerativa, è sulla sedia a rotelle. Benché ancora bambino agli occhi di tutti, Patrick all’interno della propria casa è in realtà già un uomo capace di prendersi a tal punto le proprie responsabilità da prendersi cura del genitore.

Gli anni in tasca
Una scena di Gli anni in tasca

La forza congenita dei bambini – che per Truffaut evidentemente si dissipa con il passare degli anni – non può però nascondere l’altra faccia della medaglia. Quella contraddistinta da una sofferenza taciuta, forse neanche compresa fino in fondo da coloro che ne sono vittime. La vicenda di Julien è, da questo punto di vista, esemplare. Il dramma di cui è vittima il ragazzo – una sorta di novello Antoine Doinel – è acuito dal fatto che egli sembra invisibile agli occhi dei più: dei suoi compagnia di classe – che, ingenuamente, non riescono a percepire il suo disagio -, dei loro genitori – che, banalmente, non se ne curano -, e (fatto ancor più grave) dei suoi insegnanti. Quando, durante una visita medica scolastica di routine la verità su Julien verrà a galla, tutta la comunità (adulta) di Thiers aprirà finalmente gli occhi. Ma sarà comunque troppo tardi. La posizione degli adulti è ormai compromessa. E ai bambini non resterà altro da fare se non provare a cavarsela da soli.

Potere ai bambini

Qualche anno fa, il regista Ermanno Olmi disse che avrebbe volentieri lasciato governare la città di Milano, dove abitava, a una coalizione formata da anziani e bambini. Si trattava naturalmente di una provocazione, ma siamo sicuri che – specie per quanto riguarda i secondi soggetti chiamati in causa – François Truffaut sarebbe stato d’accordo con lui. Dopo tutto, ridare centralità ai bambini all’interno della società è uno dei temi portanti di Gli anni in tasca, forse il film più politico che il regista francese abbia mai realizzato. Se I 400 colpi si prefigurava anche come una critica feroce nei confronti di una società che aveva emarginato i più piccoli, Gli anni in tasca nonostante le apparenze non si fa portatore di un messaggio meno forte.

Gli anni in tasca
Una scena di Gli anni tasca

Laddove però prima Truffaut vedeva nella società un Leviatano impossibile da sconfiggere e da cui rifuggire – dopo tutto, non fa proprio questo Antoine Doinel? -, adesso lo stesso regista intravede un barlume di speranza. Il vitalismo che contraddistingue Gli anni in tasca è in evidente contrasto con l’atmosfera lugubre che regna in I 400 colpi. La società descritta attraverso il microcosmo di Thiers è, nei confronti di bambini, sempre ingiusta, disattenta e talvolta persino violenta. Ma – sembra dirci Truffaut – non si può continuare ad accettarla passivamente. Bisogna cercare di cambiarla. E per farlo è necessario riporre fiducia nelle nuove generazioni.

Per far sì che vi sia questo passaggio di testimone, è necessario però prima di tutto che gli adulti si accorgano dei bambini. Nel film, l’unico adulto che li riesce quantomeno a intravedere è il maestro Richet; il personaggio con cui presumibilmente lo stesso Truffaut si identifica. Richet, forse anche perché ha vissuto un’infanzia infelice, entra in sintonia con i più piccoli, ne intercetta le paure, i dubbi, ne comprende lo spaesamento. Non a caso sarà proprio lui a parlare ai ragazzi dopo la scoperta dei maltrattamenti subiti da Julien. Ma, anziché edulcorare l’accaduto, ne discute apertamene con i suoi interlocutori, non avendo timore di parlare chiaro. Richet però si spinge ancora oltre, dando voce al pensiero di Truffaut.

Gli anni in tasca
Una scena di Gli anni in tasca

Il dialogo con gli scolari si trasforma ben presto in un monologo appassionato contro la società e i suoi governanti: «Non c’è partito politico che si occupi veramente di loro – di bambini come Julien, come voi – e la ragione è questa: che i bambini non sono elettori». La solennità con la quale il maestro recita queste parole racchiude il senso di un film che dietro al racconto divertito e divertente della quotidianità di un manipolo di ragazzini racchiude un’anima rivoluzionaria e profondamente critica. Senza per questo dimenticare di essere – per stessa ammissione del suo autore – non solo un’opera sui bambini, ma anche per bambini.

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