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Spencer

Cinema

Spencer: la “maniera” di Larraín per un ritratto complesso

Con Spencer, Pablo Larraín sceglie una via coraggiosa e tecnicamente superba per offrire la sua visione della figura di Lady Diana

Tempo di lettura: 3 minuti

Spencer è il nuovo film di Pablo Larraín in concorso a Venezia78. Dopo Jackie, il regista cileno sceglie ancora una volta la storia di una firstlady, affrontandola però attraverso una strada del tutto particolare e coraggiosa. Dalla vigilia di Natale fino al 26 dicembre 1991: tre giorni. Tanto sembrerebbe bastare a gettare sprazzi di luce sui giorni che sconvolsero definitivamente l’esistenza di Lady Diana, che si apprestava ad affrontare la fine della sua tormentata storia col principe Carlo.

Il pericolo di osare troppo (con troppo poco)

Larraín predilige la fantasia della riscrittura e della possente reinterpretazione al posto della fedeltà storiografica del biopic. Spencer è già un titolo emblematico, che sbandiera posizionamento e prospettiva dell’autore. Ma la via scelta è senza dubbio impervia: tre giorni come simbolo paradigmatico di una vita intera; settantadue ore dalle quali estrapolare senso e significato di «una favola tratta da una tragedia». Sono queste le parole che introducono Spencer, e che sanno di amarissimo monito. Il rischio di riduzionismo fa più volte capolino nel corso della storia, specie per un narratore accorto come Larraín, che ha senz’altro dato più d’una prova nel riuscire a tracciare attenti e accurati ritratti psicologici.

Spencer
Un’immagine tratta da Spencer

Stupisce, ad esempio, l’anacronistico accostamento tra Lady D. e la figura di Anna Bolena (!), che corse probabilmente pericoli maggiori rispetto a una donna che, dopotutto, ebbe comunque modo di dimostrare la sua indole indomita senza correre alcun rischio per la propria vita. Questo micro itinerario emotivo in quei tre giorni di Diana Spencer dovrebbe servire a fotografare fatti eretti a sineddoche, ma ciò che il film espone sembra sempre un po’ manchevole, rispetto agli ardui obiettivi ai quali esso tende.

Una dolorosa parabola sugli effetti del potere

Più o meno convincenti o solidi che siano, questi accadimenti risultano condensati fino a delineare quella che diventa in tutto e per tutto una parabola sul potere  e sui suoi paradossali effetti. Essere o avere troppo, talvolta, può equivalere a non essere e avere nulla, di ciò che si ritine realmente importante. È la libertà, la grande assente nella figura di una Diana in qualità di membro della famiglia reale. Una dozzina di vestiti, tutti da indossare in ossequio a un millenario ordine e una precisissima scansione all’interno della stessa giornata; le tende che non possono essere aperte, per timore che improbabili paparazzi possano rubare qualche scatto; il rigido ordine di ingresso nelle sale adibite ai pasti, dove la regina deve essere l’ultima a prendere posto: tutto puzza di stantio e di vecchio. Il passato, con la sua gabbia mortale, ingabbia persone, cose, spazi e ricorrenze piacevoli come il Natale. E si fanno, in Spencer, sintomi di una tradizione monarchica dal grigiore monolitico e dall’insostenibile rigidità mortuaria.

Spencer
Kristen Stewart, nei panni di Lady Diana, in una scena di Spencer

In questa gabbia metallica e fredda si muove appunto Diana, con i suoi sogni di una vita normale, «di cose semplici come un fast food», di abiti casual da indossare con spensieratezza. Ed è su questo solco che il film batte dolente i sentieri del malessere e della frustrazione. L’errore di Diana, forse, sta tutto nel non aver compreso la differenza tra persona e funzione. Tra ciò che va dato in pasto ai giornalisti e ciò che invece va tenuto nel proprio cuore, ed eventualmente donato ai propri figli. La sua carica emotiva ribelle e irridente, della quale Larraín mostra anche il lato più tenero e infantile (atto di sovversione massima, in questo caso), è il principio incontrastato del film, che non lascia praticamente alcuna parola né riflessione ad altri personaggi. Nessuno, in questa rilettura intima e intimista, ha diritto di cittadinanza.

Tecnica vs sentimento

Nonostante la commossa rielaborazione di questo tormento emotivo, in Spencer è comunque la regia a prevalere, e talvolta a eccedere sul racconto. Puntuale e talvolta strabordante, con picchi di assoluta eleganza e movimenti di macchina dal fascino indiscutibile, la macchina da presa sembra talvolta affrancarsi dai propri obiettivi, rapendo più l’occhio che il cuore degli spettatori. È questa sproporzione, forse, a nuocere più di ogni altra cosa a Larraín, che si dimostra più virtuoso che empatico, e comunque capace di manovrare una Stewart meno impacciata del solito. Ad acuire questa possente discrepanza tra il cosa e il come contribuisce non poco la musica originale di Jonny Greenwod, che risuona delle atmosfere de Il filo nascosto. Un richiamo scomodo, per Spencer. Ma che chiarisce definitivamente quanto un maggiore bilanciamento tra le anime del film avrebbe potuto contribuire a raggiungere risultati migliori per un film che comunque, lontano dagli stilemi larrainiani degli esordi, rimane uno dei migliori visti a Venezia78.

1 Comment

1 Comment

  1. Giuseppe Piazza

    5 Settembre 2021 at 16:59

    Recensione attenta e capace di trasmettere ai lettori il senso del lavoro svolto dal regista.

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