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Leo Muscato

Cinema

La rivincita. Intervista a Leo Muscato: realtà archetipica e levità del racconto

L’intervista a Leo Muscato, al suo esordio cinematografico con La rivincita, disponibile sulla piattaforma streaming RaiPlay da giovedì 4 giugno.

Tempo di lettura: 8 minuti

La rivincita, esordio cinematografico di Leo Muscato, è disponibile sulla piattaforma RaiPlay da giovedì 4 giugno. Tratto dall’omonimo libro firmato da Michele Santeramo, il film annovera tra i suoi protagonisti Michele Cipriani, Michele Venitucci, Deniz Ozdogan e Sara Putignano. La storia è quella di due fratelli: Vincenzo, un bracciante, e Sabino, titolare di una piccolissima attività. Le difficoltà economiche alle quali i due vanno incontro li porterà a cercare persino l’aiuto della malavita: da quel momento, i loro destini sembrano fondersi indissolubilmente. Nella giornata di ieri abbiamo intervistato Leo Muscato, che con noi si è confidato sul film, sul cinema e sulla vita.

Michele Cipriani e Michele Venitucci in una scena di La rivincita
Michele Cipriani e Michele Venitucci in una scena di La rivincita

Mi ha colpito l’estremo realismo non solo della storia, ma anche del modo in cui hai scelto di narrarla. Sembra emergere come una sorta di tentativo di rispecchiare l’estrema complessità del reale, con l’alternanza di toni drammatici e risvolti talvolta tragicomici, senza scadere mai né nell’uno né nell’altro registro. È qualcosa che è emerso spontaneamente nella realizzazione del film, oppure questo timbro è stato programmaticamente ricercato?

Questo realismo è frutto di una scelta estetica già in fase di scrittura. È una cosa che deriva dal mio spettacolo teatrale, che aveva una dimensione simile. Pur con i dovuti distinguo, dato che quello era un linguaggio teatrale, c’era un’uguale leggerezza nella mia messinscena. Dallo spettacolo teatrale Michele Santeramo ha tratto un romanzo meraviglioso, ampliando le sottotrame, aggiungendo dei personaggi, ma anche il suo libro ha lo stesso identico spirito. Quando, nella realizzazione del film, siamo dovuti ritornare alla sceneggiatura, siamo ritornati un po’ indietro, abbiamo preso tutto ciò che dal libro ci poteva tornare utile per ampliare, precisare e connotare meglio il testo teatrale. Ma il grosso, la “ciccia” della storia, l’essenza ultima era del tutto simile al realismo del film.

Si innesta una dinamica molto particolare tra i fratelli protagonisti del film, Sabino e Vincenzo, come se ci fosse una sorta di complementarietà tra i due. All’inizio, il loro è un legame che potrebbe verosimilmente creare più di qualche tensione, o anche instaurare dinamiche mortifere, ad esempio con Sabino che è costretto a vendere i veleni che usa Vincenzo. Eppure, alla fine, il loro legame si trasforma quasi in un sodalizio, in virtù del quale entrambi usciranno più uniti che mai. Questa famiglia, “La” famiglia, è insomma una sorta di baluardo ultimo?

Questi due personaggi nascono davvero come complementari l’uno all’altro, e l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Perché realmente, in fondo,  nella vita reale di tutti i giorni si creano dei legami che sono anche di dipendenza. Molto spesso le persone che amiamo di più sono anche quelle a cui siamo in grado di fare più male. Allo stesso tempo, sono anche quelle dalle quali riusciamo a farci perdonare – e che riusciamo a perdonare – con più semplicità. Sabino ne combina qualcuna a Vincenzo, però c’è un amore che va al di là di ogni circostanza. C’è una cosa che ho capito strada facendo, a proposito di questo film. Una riflessione, che ho maturato proprio poco prima che il film uscisse, dopo tutti i mesi passati a prepararlo, realizzarlo e montarlo. Quando l’ho rivisto, in occasione dell’uscita, ho fatto un pensiero che non avevo mai fatto prima: questo è un affresco su una tipologia di famiglia, su un archetipo di famiglia, davvero, realmente, concretamente unita. Senza nessun tipo di stereotipo o di filtro. Ed è anche un film sull’amore. Perché questi due fratelli, la stessa Maya… sono personaggi in grado di amare incondizionatamente, senza necessariamente aspettarsi nulla in cambio. Ed è una cosa che mi ha colpito molto, perché non era un pensiero che avevamo mai avuto prima, non in maniera esplicita e programmatica, ecco. Ma evidentemente c’era dentro, nella storia. Quando privatamente ne abbiamo parlato con Michele Santeramo, che è come un fratello per me, abbiamo realizzato quanto sia forte e rilevante questo sentimento che è finito lì dentro. Eppure noi non ne abbiamo mai parlato neppure per un minuto, perché non ce n’era bisogno…

Come tutti i grandi sodalizi artistici: non si parla, ma in realtà lo si fa continuamente, con e attraverso l’opera!

Si, esatto.

Leo Muscato
Leo Muscato

Nel raccontare questa storia di marginalità, c’è comunque un afflato esistenziale, in un certo senso quasi lirico, che ho avvertito soprattutto nella figura di Vincenzo. E mi è sembrato di scorgerlo soprattutto nelle scene iniziali, quando Vincenzo è ripreso al ralenti mentre si prende cura dei suoi alberi. Quel mondo rurale sembra avere ritmi diversi rispetto all’impeto del cemento, alla velocità delle autostrade squarciano le campagne. È questa una chiave di lettura legittima, una sottotrama che attraversa il film?

Dietro c’è un pensiero molto preciso e chiaro, che fa scopa con un altro particolare, e cioè il fatto che in scena non c’è praticamente mai nessuno che non sia legato alla storia. Anche la città che ospita questa storia quasi non si vede. Passa qualcuno per strada, ma non si vede.. Proprio perché ciò che mi interessava, da un punto di vista estetico, era lavorare per sottrazione. Da anni faccio uno studio quasi scientifico con le mie opere teatrali. Cerco di realizzare degli spettacoli in cui la regia risulta essere invisibile, do spazio solo ed  esclusivamente alla storia che sto raccontando, cercando di non far arrivare null’altro: né uno stile, né un’estetica precisa. Il film deve vivere delle immagini, delle azioni. Lo spettacolo deve vivere di ciò che accade nelle relazioni tra i personaggi, punto. Non mi piacciono quei film in cui i registi hanno la necessità di lasciare la propria firma estetica. Ci sono ovviamente delle eccezioni: se ti chiami Fellini, Sorrentino, Luhrmann o Cameron. Sono al di là di ogni cosa, parliamo di miti, di geni, e i geni non si calcolano, hanno una chiara marca di tipo estetico. Noi invece non abbiamo quel talento, e neanche quei mezzi che servono. Quindi per questa storia che è cruda, ma che deve essere trattata con molta leggerezza, mi sembrava che dovesse accedere alla materia andando per sottrazione. Il lirismo è una sensazione che arriva dal sottrarre. Non ci sono così tante scene in campagna: c’è l’inizio. Eppure descrive benissimo il personaggio. Lì, semplicemente, scorre un altro tempo. Quell’uomo, in quella maschera, lì dentro… In quella scena, poi, c’è un lavoro pazzesco. Il nostro mitico fonico Stefano Varini ha fatto un lavoro inauditamente bello, proprio perché avevamo deciso di non utilizzare la musica. Se il pubblico avesse sentito visto quella scena al cinema, con l’aiuto del surround, avrebbe potuto sentire sentito una vera e propria partitura musicale che Stefano è riuscito a comporre: senza note musicali, ma solo con lo sferragliare degli strumenti da lavoro. In quel caso ci sarebbe stato certamente un lirismo più concreto e reale.

Parlavi poc’anzi di tempi. Quasi tutti i protagonisti nel film si trovano come in un perenne inseguimento, e quindi in uno sfasamento, un po’ esistenziale. Le figure femminili alle prese con una maternità problematica, che si vorrebbe ma non c’è (come nel caso di Maja), o che c’è ma è problematica (nel caso di Angela). O, parlando dei loro mariti, Vincenzo che cerca di fare il padre quando non può più farlo, e Sabino che lotta per tenere unita la sua famiglia. Tutti inseguono affannosamente la rispettiva normalità. È un inseguimento che oggi più che mai ci vede perdenti?

Mi sono chiesto tante volte: cos’è la normalità? Per il mio modo di pensare la normalità ha significato fare una vita contenuta, anche in relazione ai pensieri, desideri e richieste che pensavo di poter avere. Per famiglie come quelle di Vincenzo e Sabino cos’è la normalità? Che cos’è la normalità per i rampolli di un imprenditore? Che cos’è la normalità per quei poveri cristi che sono costretti a stare anni nei campi di prigionia nordafricani, pagando l’ira di dio per sperare di poter salire su un barcone dopo essere stati violentati e torturati? Cos’è la normalità per esseri umani diversi? La normalità alla quale aspirano Sabino, Angela, Maja e Vincenzo è una normalità fatta dell’essenziale della loro storia. E cioè avere un lavoro normale, dignitoso, che gli permetta di arrivare a fine mese e di mantenere la macchina – pur molto malridotta – che possiedono, così come di mandare il bambino a scuola di danza. Quella stessa scuola di danza che poi diventa un lusso, e che non si possono più permettere.

Sabino e Vincenzo, e come loro tutti quelli che sono in condizioni di marginalità, sembrano dover rinunciare (anche fisicamente, in senso letterale) a qualcosa, pur di avere la possibilità di guadagnarsi un pezzo di normalità. Personalmente, credi che una simile traiettoria sia ormai inevitabile e consolidata, affinché questi individui riescano a giungere alla loro normalità?

Io considero questi personaggi dei lottatori vincenti, perché se consideriamo il luogo dal quale partono, o, per citare Stanislavskij, le loro “circostanze date”, ebbene loro partono praticamente  da sottoterra. “La rivincita”, questo titolo così ironico, cos’è? Cosa riescono ad ottenere questi personaggi? Soltanto la possibilità di tornare ad essere una famiglia unita, ma senza che ci sia una menzogna grossa dietro di loro. Fondamentalmente, per loro, quella normalità equivale ad avere un figlio. A pensarci bene, nella vicenda c’è un tale livello di assurdità che sa di tutto, meno che di “normalità”. Dopotutto, alla fine, vediamo sei persone in bilico su un parapetto, che non hanno risolto quasi nulla dei loro problemi economici. In ultima analisi la rivincita che questi lottatori ottengono, è il ritorno alla loro normalità, per quanto fittizia possa essere. È  una rivincita di niente, se non quella rivalsa nei confronti di chi vuole assolutamente abbatterli. Da un po’ di tempo si sente parlare di resilienza. Questa è davvero una storia di resilienza e resistenza. Di accettazione di compromessi. La necessità di dover rinunciare fa assolutamente parte dell’orizzonte di questi personaggi, e sfido chiunque: chi di noi non ha dovuto ingoiare bocconi anche amarissimi, pur di ottenere la propria normalità?

Michele Cipriani e Michele Venitucci in una scena di La rivincita
Michele Cipriani e Michele Venitucci in una scena di La rivincita

Ad un certo punto, nel film, uno dei malavitosi dice una frase che mi ha colpito molto: «Per la gente i morti sono un capitolo chiuso».

La pronuncia il personaggio più cinico del film, la battuta è forte anche per questo. Però è un dato di fatto: nel cimitero del film non si vede mai nessuno. Sabino ha una baracca dove vende pochissimi fiori. Ad un certo punto quella baracca ha addirittura la possibilità di mettere in bella vista bidoni colmi di veleni, senza che nessuno si preoccupi che possano passare dei vigili a controllare. Al di là del film, in un mondo in cui vige il comandamento del “si salvi chi può”, si può salvare soltanto chi è in vita. E in queste condizioni, un pensiero per i morti, che può essere anche solo un fiore, oggi non trova nemmeno più spazio. Mi vengono in mente delle riflessioni del cardinale Sepe, quando ha parlato dei periodi di grande carestia, incertezza e povertà. È in quelle circostanze che i più poveri si rivolgono alla malavita, che finge di essere dalla loro parte. Uno studio che abbiamo fatto con Santeramo in fase di realizzazione ci ha mostrato che gli strozzini in queste situazioni, in questo preciso momento storico, sono ben contenti di darti 500 euro. A loro va molto bene se tu non paghi, tanto hanno la tua casa o la tua attività come unica garanzia. Quindi, quando si ha bisogno di una somma per mandare avanti la propria attività, allo strozzino interessa relativamente che le sue scadenze non vengano rispettate. Magari, alla fine, rileverà proprio quell’attività e ci metterà il vecchio titolare a lavorare. Quel personaggio che pronuncia la frase, esattamente come tutti gli altri, è costruito e raccontato come un archetipo. L’intera storia, pur essendo realistica, ha forti valenze metaforiche.

Per concludere, prendendo spunto dalla tua personale vicenda biografica che ti vede all’esordio nella regia cinematografica all’età di 46 anni, che cosa ti senti di dire a tutti coloro che sperano di entrare a far parte di questo mondo?

Ero ancora abbastanza giovane, mi capitò di sentire in un vecchio vhs una frase che mi ha segnato profondamente. Recitava così: «Quelli che si limitano saggiamente a ciò che pare loro possibile, non avanzeranno mai di un passo». Questa frase qui, quando l’ho davvero capita, l’ho segnata su un quaderno. È diventato per me un manifesto che ho tenuto sempre presente, immaginando di lanciare un ponte verso gli dei. Non bisogna solo limitarsi a quello che ci sembra possibile.

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