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Dead Ringers

Amazon Prime Video

Dead Ringers, la ballata del simbolismo iconoclasta tratta dall’omonimo film di David Cronenberg del 1988

Tempo di lettura: 6 minuti

Correva il settembre del 1988 quando, sul grande schermo statunitense, arrivò Dead Ringers (tradotto in italiano – aggiungerei anche malamente – con il titolo Inseparabili), l’undicesimo lungometraggio di uno dei registi più progressisti del settore – e al contempo, forse proprio per questo, più controverso – ovvero David Cronenberg.
La storia della coppia gemellare costituita da Beverly ed Elliot Mantle, due famigerati ginecologi impegnati entrambi sul fronte dell’evoluzione medica e della risoluzione del problema della sterilità femminile, è ispirata da un episodio di cronaca della Grande Mela avvenuto nel 1975, quando i gemelli Marcus furono ritrovati privi di vita nella casa abitata da entrambi, a seguito di un doppio suicidio.

L’imprescindibile virata sul gender flip dei protagonisti

I Beverly ed Elliot Mantle cronenberghiani, interpretati da uno spettacolare “uno e trino” Jeremy Irons, erano, appunto, esponenti del sesso forte. Desiderosi più di poter dare un contributo al progresso scientifico ed implementare il proprio egotismo che essere disinteressatamente d’aiuto, la loro comprensione del dramma esistenziale della donna media in età da prole era tendenzialmente circoscritta ad un’empatia passiva e ad una pura bramosia di conoscenza anatomica. In un’epoca in cui invece è sempre più concreto il bisogno epidermico (da parte di chiunque) di allinearsi alle tendenze del Women power e allo sviluppo della leadership femminile, oggi la transizione di genere dei protagonisti è sembrata l’unica scelta possibile per poter anatomizzare in maniera certosina un tema così delicato come quello che racchiude in sé maternità, sterilità e reiterata frustrazione della sperimentazione emotiva.

Dead Ringers

Beverly ed Elliot, nella miniserie di Amazon Prime Video, sono così diventati donne. L’ambiguità originaria dei nomi resta valida comunque, più strettamente femminile il primo, l’altro chiaramente da uomo, il tutto elevato all’ennesima potenza: una delle due, per la precisione Beverly, è omosessuale e vorrebbe fortemente avere un figlio, risultato che proverà a raggiungere durante la narrazione senza soluzione di continuità. Le condizioni di partenza impongono, così, delle posizioni molto più consapevoli, che siano frutto di un semplice meccanismo di proiezione o di un insegnamento via negationis. Beverly si rivede moltissimo nelle sue pazienti, nella loro insoddisfazione e nella sensazione di inettitudine che provano ad ogni gravidanza fallita o interrotta spontaneamente, al contrario di Elliot che aborrisce questa condizione di infelicità perpetua e fa del hic et nunc il suo personalissimo mantra.

La donna è dunque l’elemento moltiplicatore che scandisce il ritmo dell’equazione filmica: cosa pensano le donne, cosa vogliono le donne, come agiscono le donne, cosa ottengono le donne. Al contrario, gli uomini sono volutamente relegati su uno sfondo lontano ed invisibili ad occhio nudo, cartonati inanimati dalle sembianze umane che rappresentano esclusivamente sempre un mezzo per raggiungere un fine, ed infatti quasi mai prendono decisioni, quasi mai persino si esprimono. It’s a Women’s, Women’s, Women’s World, parafrasando all’inverso il famosissimo brano di James Brown.

Dead Ringers, tra individualismo, scissione e dualità

Se nel film omonimo la diversità caratteriale dei gemelli era parzialmente desaturata, nella miniserie viene, al contrario, funzionalmente portata ai massimi estremi: Beverly è estremamente sensibile, profonda, empatica e, proprio per questo, tremendamente fragile; Elliot, al contrario, più per spirito di sopravvivenza che per volontà consapevole, è riuscita ad estraniarsi dall’eccessiva emotività di cui il mondo è impregnato e conduce una vita di perverse sregolatezze, sia morali che fisiche, sul filo di una palese sociopatia: soffre di un disturbo alimentare, fa abuso costante di droghe di ogni tipo e vive in balia di una dipendenza sessuale acuta.

Dead Ringers

Nonostante la quasi fantascientifica diversità delle due gemelle, esiste tuttavia una connessione viscerale che le porta a compensarsi, in un rapporto simbiotico connotato da un’inclinazione morbosa, mefitica. E’ una dimensione quasi extraterrestre, dove non c’è spazio nè per altro, nè per altri: i desideri, gli obiettivi, le paure, l’amore, tutto viene mescolato assieme a creare una fantomatica ed inesistente terza persona, figlia surrogato di due entità che si sentono complete solo quando si specchiano nel riflesso sordido ed altrettanto narcisistico dell’altra.

E quando Genevieve Cotard fa la sua apparizione nella vita di Beverly, dapprima in sordina e gradualmente poi con proposte sempre più ostiche (una famiglia, una casa propria, un figlio) i solidi equilibri di interrelazione tra le sorelle crollano come un castello di carte: le due sono costrette a lottare tra l’inconscio desiderio di indipendenza, che riecheggia come un improbabile bisogno primitivo di (ri)appropriazione della libertà e la parassitaria convinzione dell’incapacità del singolo, a favore del sempiterno e mai fallace duo endogamico.

Per quanto paradossale possa sembrare, la storia delle gemelle Mantle è, al contrario, di una banalità forse a tratti disarmante: si ama follemente ciò che si invidia, si sente la necessità di avere un controllo su ciò che non ci appartiene, che non riusciamo ad essere, a cui non riusciamo ad approdare. A nulla serviranno i reiterati tentativi di separazione tra le due, che, al contrario, fungeranno solo da molla per un agognato e necessario riavvicinamento, finendo per rinsaldare ancora più fortemente la loro interdipendenza. E’ un’utopia del recupero viziata sin dall’inizio, audace ed impossibile per i presupposti da cui parte e, proprio per questo, destinata al fallimento.

Il superamento (es)temporaneo della cultura del body horror

Che Cronenberg prediliga, da sempre, il body horror è un dato di fatto. La deformità fisica del corpo assume una centralità indiscutibile nelle sue opere, attraverso la rappresentazione di mutazioni genetiche, malattie deturpanti, mutilazioni, ma è anche al contempo pareggiata da una filosofia della “bellezza interiore” (il cui apice è stato raggiunto con il suo ultimo film, Crimes of the Future) che, lungi dal promulgare concetti astrofisici per cui è l’anima a fare la differenza, è intesa dal regista canadese come una condizione di piacere estetico derivante letteralmente dalla vista dell’interno del nostro corpo, ovvero dei nostri organi.

Gli originari omozigoti Mantle erano decisamente molto più in linea con questo concetto: era papabile il piacere – che talvolta sfiorava la tensione erotica – della conoscenza “interna” della donna intesa in senso stretto, come approdo ad un luogo anatomico ignoto, ostico e talvolta assai problematico come quello dell’utero che per la sua ostilità ad accogliere, nel film, viene spesso apostrofato come “triforcuto”, con l’intento di voler rievocare all’immaginazione visiva dello spettatore un concetto di cattività quasi satanica.
Persino i nuovi strumenti clinici che Elliot fa brevettare da uno scultore – e che, di regola, per il loro carattere di novità avrebbero dovuto rappresentare un passo avanti sul fronte delle scoperte in campo ginecologico – sono immaginati dal regista come utensili rudimentali, arcaici, che creano un sottile, ambiguo e simbolico parallelismo tra la primitività umana e la bramosa tendenza a soverchiare l’ignoto, che, da sempre, è associato semplicisticamente al “cattivo”, al “non buono”.

Dead Ringers

Per quanto anche nel Dead Ringers del piccolo schermo il progresso scientifico resta un elemento cardine, spesso e volentieri spalleggiato dalle cocenti tematiche – attualissime tra l’altro – dell’aborto, del concepimento in vitro e dell’utero in affitto, l’occhio di bue resterà puntato per tutto il tempo sulla caratterizzazione del rapporto tra Elliot e Beverly, e sulle conseguenze nefaste di un cordone ombelicale tra le due mai reciso completamente. Ma forse nel paradosso più assoluto di due ginecologhe che, pur avvezze quotidianamente a sperimentare il concetto di separazione attraverso il momento del parto, conoscono un unico registro vitale – e cioè quello della simbiosi – la storia viene salvata da una morale, sottile e forse troppo impercettibile, che può fattivamente trasformarsi in un insegnamento per l’occhio più attento.

E’ nel finale che questo insegnamento prova a palesarsi: quando Elliot prende il posto di Beverly alla morte di quest’ultima causata da un parto cesareo assai difficile, è lì che viene segnato il destino delle due protagoniste: per loro è possibile vivere solo l’una nell’immagine dell’altra, in una delicata compensazione eterea che le porta a trasformarsi in ciò che hanno sempre aspirato ad essere: un’entità unica, ma nell’essenza costituita sempre da due elementi divergenti. Questo ci ricorda, forse un po’ rozzamente, che è possibile essere tante sfaccettature della stessa persona (e personalità) allo stesso momento, senza che l’una sia costretta a soccombere a favore dell’altra (o delle altre).

Dead Ringers

Dead Ringers, un remake da piccolo schermo palesemente riuscito

Parliamo semplicisticamente di remake, ma forse dovremmo soffermarci maggiormente sulla terminologia adatta da impiegare per definire Dead Ringers. Un rifacimento pedissequo della storia del film di Cronenberg sicuramente non lo è, così come ci mostrano tutti quei nodi tematici diversi – talvolta persino opposti – da cui scaturiscono interrogativi e spunti di riflessione altri, molto più contestualizzati nell’epoca socio-culturale che stiamo vivendo adesso.

Resta di base un allineamento a degli elementi chiave come, ad esempio, una fotografia dai colori freddi, spenti, che raggiunge picchi di cupezza fortemente simbolica, a rappresentare la tempesta interiore di entrambe le protagoniste, cui si contrappongono solo il bianco diafano della clinica, simbolo di una purezza alla quale Beverly sicuramente, ma in modo diverso forse anche Elliot, cercano di aspirare (non riuscendoci chiaramente mai) ed il rosso di quei camici sterili da sala operatoria che racchiudono nella loro nitidezza passione, sofferenza e tanta, forse troppa, superbia.

Inutile dire, ma lo si fa per eccesso di zelanteria, che la presenza scenica garantita da Rachel Weisz attraverso lo split screen rende l’opera a tratti maestosa. Da vedere assolutamente, e da farlo tutto di un fiato.

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