Il cinema di Xavier Dolan si muove con ricorrenza tra topoi e soluzioni stilistiche riconoscibilissimi. Forza e aporia della sua poetica, quest’impressionante continuità porta alla strada del riconoscimento autoriale che si manifesta con l’aggettivo dolaniano, per designare un intero cinema che mescola in parti eguali rabbia e tenerezza, violenza e quiete. Un cinema che parla essenzialmente di solitudini ed emarginazioni, della disperata, silente differenza colta al cuore di involucri sociali protette da fili spinati fatti da marshmallow. È un cinema assolutamente, radicalmente, essenzialmente personale, che drena dolore e cristallizza perle estetiche inconfondibili. Ogni film è come un coltello, che un centimetro alla volta penetra sempre più all’interno di una ferita sanguinante che non accenna a cicatrizzarsi.
LE CONFESSIONI: IL MECCANISMO NARRATIVO DI VERITÀ PUBBLICHE E PRIVATE
La narrativa di diversi film di Dolan lascia pochi dubbi sulla valenza autobiografica del racconto. Già nel lungometraggio d’esordio J’ai tué ma mère (2009), il giovanissimo omosessuale Hubert Minel (interpretato dallo stesso Dolan) confessa debolezze, mancanze e disagi unicamente di fronte a una videocamera con la quale si riprende in bianco e nero, in un indefinito profilmico che oscilla tra il limbo e la catarsi.
Un meccanismo simile si ritrova nella seconda opera, il non riuscitissimo Les amours imaginaires (2010), dove i gruppi d’ascolto sono i luoghi per eccellenza di un racconto mediato dalla memoria, dall’(auto)analisi e dall’introspezione. Anche Laurence Anyways e il desiderio di una donna… (2012) e il tribolato La mia vita con John F. Donovan (2018) poggiano su un meccanismo narrativo non molto diverso. In entrambi i casi la vicenda filmica si snoda a partire da due interviste a cuore aperto rilasciate alla stampa dai due protagonisti, rispettivamente Laurence Alia – ex professore di letteratura, ex uomo: ex transfuga della vita – e Rupert Turner, altro omosessuale. Le interviste di Laurence Anyways e John F. Donovan non hanno in comune i medesimi artifici tecnici e inquadrature, il medesimo decaffeinato alla base dei dissapori tra intervistatore ed intervistatrice.
Le due interviste sono anche funzionalmente identiche, nell’esplicitare tutte le difficoltà dovute a una verità già difficile da metabolizzare, e ancor più scomoda da mettere nero su bianco in qualità di personaggi pubblici. La più intima e (apparentemente) scabrosa delle verità ha da scontare il silente stigma degli interlocutori. Ha da scontare, inoltre, l’enorme peso di una verità resa ancor più scomoda dalla stessa natura dei personaggi. «Il nostro costrutto sociale si basa sul possesso, persone incluse», dice uno dei personaggi di Matthias & Maxime (2019), e questo è ancor più vero nel caso di un’icona che deve dolorosamente mostrare ciò che, per il quieto vivere, sarebbe meglio non mostrare.
LA MATERNITÀ COSMOGONICA, SIMBOLO DI UN INTERO CINEMA
È sempre la famiglia lacerata il punto apicale del dissidio di ogni protagonista ideato da Xavier Dolan. Nel suo cinema non c’è traccia di figura paterna, che, se compare, lo fa sotto forma di sbiadito, ostile o impalpabile simulacro (J’ai tué ma mère e Laurence Anyways). L’invariabile centro di gravitazione narrativa, emotiva e metaforica si trasferisce così nel complesso rapporto con la figura materna, che nel bene e nel male assume il ruolo di forza cosmogonica dell’universo dolaniano. Che sia biologica o meno, ella è origine, causa e fine dei moti di tutti i protagonisti. Si passa dal tenero – sebbene conflittuale – rapporto del Rupert di La mia vita con John F. Donovan al terribile, soffocante e violento contrasto di Maxime in Matthias & Maxime.
Alla madre, e al suo riconoscimento, tendono sia Laurence Alia che il protagonista di Tom à la ferme (2013), per il quale la mancanza di legame biologico con la madre del suo ex compagno non scalfisce la valenza metaforica dell’agognata intimità. La più complessa riflessione sulla maternità sgorga dal trittico J’ai tué ma mère, Mommy (2014) ed È solo la fine del mondo (2016). Tre madri simili, che abbinano un portamento grezzo e un’estetica pacchiana con un’insospettabile, oceanica, problematica profondità d’animo. Tre donne sole, che per quanto desiderino tenere unito quel brandello di famiglia che è rimasto loro, devono soccombere ad una realtà avversa. Tre esseri umani che, pur essendo destinati all’insuccesso, non possono fare a meno di amare i figli nonostante i figli non siano fatti per stare bene con loro.
È in questi simboli fatti di intrinseci, insanabili e inevitabili contrasti che il realismo di Dolan sprigiona il suo lato più struggente. Si tratta di una poetica che crea tensioni, inscena liti e scintille (e pure qualche lampo di soavità) causa di un mondo che si vorrebbe diverso da come, in effetti, non può che andare. Gli sforzi, gli amori, i legami materni non sono romantiche o romanzate forze salvifiche, bensì, a tratti, il principale ostacolo alla felicità. Il contrasto – marca dolaniana per eccellenza – muove il mondo.
VUOTE FORMALITÀ E CHIMERE
La tavola imbandita, con i commensali pronti a mangiare attorno ad essa, costituisce una delle più caratteristiche ricorrenze tematico-formali del cinema di Dolan. Il pasto familiare è il simbolo più adatto per la descrizione dei malesseri che i personaggi incarnano e patiscono. Ciò che ipocritamente potrebbe essere inteso come un momento di convivialità, si tramuta immancabilmente, in ogni singolo film, in un coacervo di tensioni, ipocrisie e risentimenti, talvolta urlati (J’ai tué ma mère, È solo la fine del mondo, La mia vita con John F. Donovan), altre volte impliciti (Laurence Anyways e il desiderio di una donna…, Mommy).
Ancora la famiglia, quindi, che si presenta come il primo microcosmo all’interno del quale i protagonisti non hanno un rifugio, ma dal quale cercano rifugio. Le famiglie di Dolan sono i primi luoghi deputati a sostenere la claustrofobica ipocrisia della negazione, del mancato riconoscimento, dell’assenza di autentico affetto. Il non detto non investe solo l’omosessualità di molti dei protagonisti (che pure è parte strutturante del discorso cinematografico del regista) ma si riverbera in un più generale universo emotivo. Ciò che manca è l’autentica prossimità emotiva, la sincerità, che sono rimpiazzati da una sofferenza silente sormontata da sguaiate risate e altrettanto grossolane e inutili formalità. Riaffiora il contrasto. Pulsa la spinta ad un oltre verso il quale fuggire.
Ecco affiorare un’altra serie di contrasti, dove assumono una chiara valenza estatica i numerosi e mirabolanti artifici tecnici che spezzano la verosimiglianza, sospendendo il racconto in un limbo che fluttua tra il sogno, la speranza o il ricordo. Il metraggio è ridottissimo, ma Dolan tenta di dilatare gli angusti confini materiali con ogni mezzo possibile. L’opprimente rapporto 1:1 delle immagini di Mommy si dilata grazie a Steve, che per pochissimi minuti, mentre vola sullo skateboard, espande i limiti dell’inquadratura in un ideale abbraccio profilmico che finalmente ingloba entrambe le sue figure genitoriali (non a caso, due donne).
A questo sprazzo di effimera felicità si aggiunge un’altra inquadratura “dilatata”, quella dei minuti finali, che ha però valenza di una chimera. Si trovano espedienti simili in ogni film di Dolan: la carrellata che, in ralenti, inquadra i due protagonisti di Matthias & Maxime mentre si baciano isolati dal resto degli amici; l’inseguimento – ancora in ralenti – del giovane Hubert di J’ai tué ma mère, che in un bosco tenta invano di raggiungere la madre vestita da sposa; la passeggiata di Lawrence Alia con l’ex moglie sull’Île au noir, ultimo sprazzo di vitalità sfrenata simboleggiata dai variopinti vestiti che, come pioggia, li sommergono con lo stesso sfrenato cromatismo che è quello (utopico) del loro desiderio di normalità, di libertà. Di un amore che non si placa, nonostante le incompatibilità biologiche e fisiche.
LE MUSICHE DI DOLAN
Pochi registi hanno una consapevolezza tanto marcata dell’utilizzo delle musiche. Ed anche in questo caso il motivo del contrasto – talvolta stridente – è portante. Coesistono generi agli antipodi, eppure tutto sembra trovare perfettamente posto nel disegno emotivo del regista, che filma sospiri e immortala psicologie. C’è il pop di Vivo per lei in Mommy, l’elettronica di A new error dei Moderat in Laurence Anyways; c’è il rock adolescenziale di All the small things dei Blink 182 in La mia vita con John F. Donovan, che accompagna l’estasi di un bambino che guardando la sua serie tv preferita urla: «Sono nato per questo momento! Sono uscito dalla tua pancia solo per questo!» (ringrazio Dolan per aver scritto questo dialogo: non so per quanti film ho pensato le stesse identiche parole).
C’è la rarefatta atmosfera indie dei Surface of Atlantic con No Sleep, Walk in J’ai tué ma mère, e c’è il magnetico Moby di Natural Blues in È solo la fine del mondo, che segue il tormentone di Dragostea Din Tei reso celeberrimo da Haiducii. Capita poi, talvolta, che questo brio da onnivoro musicologo venga inframmezzato dalla Suite per violoncello solo di Johann Sebastian Bach in Les amours imaginaires, o dal campionario di autori classici di Laurence Anyways, che inanella brani di Brahms, Tchaikovsky, Vivaldi e Maler. Non esiste soluzione di continuità tra registri nobili e meno nobili, fra tradizioni musicali colte e “commerciali”. Ogni nota è esattamente nel posto dove dovrebbe essere, e fornisce qualcosa in più a quelle immagini che, pur eloquenti, non possono raggiungere tutti i territori emotivi che Xavier Dolan vorrebbe. È la necessità di un passo in più. Di una sfumatura in più. Di una altro, ennesimo, antagonismo.
INFINE FU LA LIBERTÀ
Esiste in molti film di Xavier Dolan una sorta di legge non scritta, che congeda gli spettatori con un tocco di amara poesia. È come se tutte le spinte divergenti, caricate fino al parossismo, deflagrassero più o meno sistematicamente in fughe, partenze e ripiegamenti introspettivi. Sono allontanamenti che obbediscono a logiche diverse, quelli dei protagonisti di Xavier Dolan. Si rintana nel suo locus amoenus il protagonista di J’ai tué ma mère, così come scappa da una famiglia che non l’ha mai compreso quello di È solo la fine del mondo: entrambi risputano in faccia allo spettatore l’illusorietà di una riconciliazione impossibile, di un riconoscimento finalmente franco e disarmato.
Per motivi diversi, scappa via anche il copywriter di Tom à la ferme, volendosi finalmente sottrarre all’irresistibile sensualità del pericolo, ribadendo l’impossibilità di un’unione ipocrita, oltre che pericolosa. Si allontanano, semplicemente, i protagonisti di Les amours imaginaires (dove Nicolas, pur fisicamente in prossimità del triangolo amoroso, decide di staccarsene), di Laurence Anyways e il desiderio di una donna…, tramontata per insondabili motivi la possibilità di un legame che forse, stavolta, è definitivamente stroncato; e si allontana anche il protagonista di Matthias & Maxime, che magari vuole ancora cullarsi nell’utopia di un legame che non sarà mai reale. E poi c’è la fuga di Mommy, quella (non mostrata, ma suggerita) di un ragazzo che proprio non vuole saperne di piegarsi a costrizioni diverse da quelle materne. La sua fuga è in realtà un tentato suicidio, ultimo anelito vitale di una serie di individui che lottano per liberarsi dalle catene morali, sociali e familiari che le inchiodano. Una disperata – e per questo estremamente vitale – manifestazione della più intima marca del cinema di Xavier Dolan: la ricerca di libertà. Spesso negata. Raramente raggiunta. Sempre sognata.
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