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Paul Thomas Anderson

Anniversari

I primi cinquant’anni di Paul Thomas Anderson

In occasione dei cinquant’anni di Paul Thomas Anderson, ripercorriamo i suoi film alla ricerca dei topoi tipici e delle più particolari soluzioni formali.

Tempo di lettura: 6 minuti

Compie oggi cinquant’anni Paul Thomas Anderson. Innumerevoli sono le storie, i dialoghi e le inquadrature che mi hanno folgorato. E vano sarebbe ogni tentativo di tracciare un compendio che abbracci anche solo in minima parte, ma con la dovuta compiutezza, l’intera sua filmografia. Mi limiterò a delineare alcuni snodi tematici di capitale importanza nell’opera di Anderson. Ad oggi, senza alcun dubbio, tra i più influenti cineasti della Settima Arte.

STRUTTURE ALTMANIANE ED ECHI SORRENTINIANI

Dal punto di vista meramente formale, Paul Thomas Anderson ha spesso prediletto soluzioni narrative che richiamano quelle care a uno dei suoi maestri dichiarati: Robert Altman. Boogie Nights – L’altra Hollywood (1997), Magnolia (1999) e in misura leggermente minore Vizio di forma (2014) si dipanano su una struttura corale identica a molti film del regista di Kansas City. A livello contenutistico, probabilmente, solo il primo dei tre film citati avrebbe forse riscosso un convinto plauso da parte di Altman. Il pessimismo insito nella storia del giovanissimo pornoattore Dirk Diggler poteva ricollegarsi all’ampio respiro di un’opera come Nashville. Favole dalle tinte fosche e dagli sviluppi mortiferi, entrambi i film riflettono sul costume americano attraverso la metafora dell’arte (musicale in un caso, audiovisiva nell’altro), che si fa metafora di un’America che assiste impotente, passiva, noncurante al rapidissimo declino di star grondanti sogni.

Tom Cruise in una scena tratta da Magnolia
Tom Cruise in una scena tratta da Magnolia

Accantonando parzialmente il proprio pessimismo, nel glorificato Magnolia e in Vizio di forma Anderson lascia intravedere il suo lato meno rassegnato. Che si tratti di una pioggia di rane o di un unico caso risolto da parte di Doc Sportello, a fronte dei mille affrontati, la speranza e la consapevolezza sembrano albergare al fianco di tutto l’odio e l’insensatezza, i livori e le incomprensioni, gli imbrogli e i complotti di un mondo che pare soffocare ogni umanità con tutto il suo carico di ironico, infido e maligno «blablabla». Queste sono le precise parole di Earl Partridge sul letto di morte, le stesse che utilizza Jep Gambardella per ridicolizzare il chiacchiericcio quotidiano, perso come Doc Sportello nel caos un po’ grottesco di un mondo iperverbalizzato in cui la lallazione è l’unico suono in grado di replicare l’insensatezza. I personaggi di Magnolia, così come Doc e Jep, abitano un mondo in cui il senso ultimo è ancora a portata di mano, sebbene l’unica via per raggiungerlo stia nel ripiegamento autoreferenziale ed isolazionistico. A fianco dell’ironico e un po’ rassegnato cinismo altmaniano, qualcos’altro e di impalpabile sembra pulsare nel mondo di Paul Thomas Anderson.

LA FAMIGLIA: DESIDERATA, SMASCHERATA, ODIATA E TOCCATA IN SORTE

Anche nei suoi film meno corali, Paul Thomas Anderson propone una riflessione praticamente continua sulla concezione della famiglia e sui correlati logici ed emotivi che essa sottende. Ad eccezione forse del solo Vizio di forma, non c’è pellicola nella quale i rapporti tra i protagonisti si sottraggono a letture di tipo familiare. Poco o nulla importa che i legami tra i singoli componenti siano di sangue o meno. Già nell’opera d’esordio, Sydney (1996), il rapporto tra il personaggio interpretato da Philip Baker Hall e John e Clementine è a tutti gli effetti di tipo paternalistico, in maniera non dissimile da quanto accade in Boogie Nights. I giovani protagonisti dei due film sono individui solitari, senza più quella guida familiare che hanno smarrito per colpe altrui o che hanno semplicemente disconosciuto. Smarriti, si ritrovano a seguire gli insegnamenti di archetipi paterni come quelli personificati dal giocatore galantuomo di Sydney o dal regista pornografico Jack Horner.

Burt Reynolds e Mark Wahlberg in una scena tratta da Boogie Nights - L'altra Hollywood
Burt Reynolds e Mark Wahlberg in una scena tratta da Boogie Nights – L’altra Hollywood

La famiglia, sebbene posticcia e utilitaristicamente creata e sfruttata, costituisce il medesimo nucleo emotivo de Il petroliere (2007). Qui la famiglia e la sua (finta) retorica diventano i luoghi privilegiati attraverso i quali condurre una spietata e totale demistificazione. Daniel infatti approfitta di una menzogna per scopi personalissimi, a danno di una comunità che, parimenti, sembra funzionare come una famiglia allargata. Nemmeno il nucleo familiare del pastore Eli è esente da raggiri e dissapori, ed è proprio sfruttando quest’aporia che il petroliere, fingendo di diventare parte della famiglia cristiana del villaggio, succhierà il sangue dell’agnello sacrificale. È ancora la famiglia il punto attraverso il quale osservare disagi, traumi e debolezze di altri personaggi andersoniani, a partire dal problematico rapporto con le sorelle di Barry in Ubriaco d’amore (2002) fino a molti protagonisti di Magnolia. È il caso del piccolo Stanley, che urla la sua disperata umanità a un padre (un altro padre) che lo sfrutta; è anche il caso della struggente Claudia Gator e dello stesso Frank Mackey, che devono tutte le loro idiosincrasie a figure paterne aberranti, per quanto tardivamente e quasi miracolisticamente consapevoli.

Daniel Day-Lewis in una scena tratta da Il petroliere
Daniel Day-Lewis in una scena tratta da Il petroliere

Ne Il filo nascosto (2017), in assenza di figura paterna, a infestare i deliri e i desideri di unità familiare dello stilista Reynolds è il ricordo, il fantasma della madre, che si manifesta concretamente nelle cure di una sorella fin troppo premurosa, quando non apertamente fastidiosa. In questo caso, il nucleo familiare incatena (ma al tempo stesso sprigiona) tutta la dirompente doppiezza del film e del suo protagonista: che è solo, ma che anela l’unione quasi mistica con la maternità; che è dittatore del suo atelier, ma che non potrebbe nulla senza le figure femminili della sorella o di Alma, che sostanzia e incarna il suo estro; che sembra signore assoluto della coppia, ma che pure – con moto nietzscheano – permette alla forza a lui subordinata di ridurlo periodicamente quasi in fin di vita, echeggiando il Truffaut de La mia droga si chiama Julie (1969).

Vicky Krieps e Daniel Day-Lewis in una scena tratta da Il filo nascosto
Vicky Krieps e Daniel Day-Lewis in una scena tratta da Il filo nascosto

La dolente riflessione familiare trova il suo ideale e quasi tragico epilogo nel rapporto tra i due protagonisti di The Master (2012). Freddie è un figlio dell’America, ne reca tutte le ferite; di converso, Lancaster è l’ennesima figura paterna archetipica, che si imbatte quasi per caso in un individuo che rappresenta per lui qualcosa a metà strada tra l’occasione da sfruttare e un figlio sul quale riversare ogni affetto e sincera preoccupazione. Qui, però, non c’è spazio per alcun ottimismo. Le strade del maestro e dell’allievo sono destinate a separarsi, o forse a rincorrersi in eterno. Paul Thomas Anderson non fornisce alcuna delucidazione, e la vicenda di Freddie – spogliata di ogni riferimento a persone o fatti reali – si può configurare come un disperato tentativo di ribellione di un figlio nei confronti di un padre.

MOTI DI PIANETI KUBRICKIANI

Nella sterminata vastità di inquadrature che, da sole, meriterebbero pagine e pagine d’analisi, da amante di Kubrick non posso non soffermarmi sul più kubrickiano dei film di P. T. Anderson: Il petroliere. Il Daniel Plainview che drena il terreno del prezioso fluido è un uomo solo che non concepisce legami familiari, che non cede all’amore, che non contempla alcuna trascendenza, ma che anzi la aborrisce arrivando addirittura a servirsene utilitaristicamente per poi reprimerla nel sangue. Plainview è la tecnica, l’ingegneria razionale dell’uomo, che, come la macchina, si ipostatizza e glorifica se stessa. Non siamo ai livelli di Hal 9000 di 2001: Odissea nello spazio, ma siamo molto vicini.

La celebre scena di 2001: Odissea nello spazio
La celebre scena di 2001: Odissea nello spazio

Nelle terre desolate terre californiane, apparentemente aride di vita come gli immensi spazi interstellari di Kubrick, la vita stessa prende le forme dell’inseminazione umana. E se l’effetto è reso dal Maestro con forme e geometrie latamente sessualizzate (e attraversate dalle navicelle), lo stesso può dirsi di Anderson, che attraverso la trivellazione del terreno inscena una dinamica sessuale non troppo occulta.

Daniel Day-Lewis in una scena tratta da Il petroliere
Daniel Day-Lewis in una scena tratta da Il petroliere

I richiami formali al 2001 di Kubrick sono innumerevoli. Penso alle scene iniziali con lo schermo a nero di entrambi i film, origine del (e di un) mondo. Penso alla prima trivella messa in funzione nel villaggio di Little Boston, che nel suo moto armonico richiama il moto di pianeti e navicelle kubrickiane. E penso, naturalmente, al più esplicito richiamo dei numerosissimi quadri filmati con rigore e simmetrie inconfondibili. Penso, soprattutto, alle scene finali, allorchè il petroliere trova finalmente modo di demolire ogni illusoria trascendenza soffocandola nel sangue. L’uomo kubrickiano e il petroliere di Anderson sono essi stessi la vita, che perpetua se medesima anche lì dove parrebbe impossibile, in nome di un antropomorfismo e di un antropocentrismo che non scende minimamente a compromessi. Nella buona e nella cattiva sorte.

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