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Barbie

Cinema

Barbie di Greta Gerwig, ovvero quando fiondarsi fuori dalla propria comfort zone diventa un imperativo

Tempo di lettura: 5 minuti

Dopo un’attività di promozione badiale e assai florida – fatta di première con outfit coordinati, soggiorni nella dream house di Malibu messi in palio da AirB&B e folkloristici nonché ironici antagonismi con Oppenheimersbarca nelle sale cinematografiche Barbie, il live action di Greta Gerwig sulla bambola giocattolo più iconica di sempre. C’è chi si aspettava tanto, chi si aspettava proprio niente: Barbie è il perfetto emblema della secca spaccatura dell’audience nelle due categorie canoniche, i seguaci fanatici ed i cinici detrattori, uomini o donne che siano.

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Non so se e quanto sia corretto definire cosa Barbie è (o, al contrario, non è). Il risultato dell’operazione filmica di Greta Gerwig, che mescola insieme realtà e fantasy, è caotico, grottesco – a tratti quasi kafkiano -, approssimativo tanto nello sviluppo quanto nel finale, senza essere riusciti a capire se il tutto sia stato voluto oppure no. Piuttosto, per declinare le potenzialità ed i deficit del film sicuramente più atteso di questo 2023, potremmo parlare di “inclinazioni tematiche”, molto spesso frullate tutte assieme e servite in contemporanea, allo spettatore lo scomodo ed arduo compito di pescare dal cappello magico le sue preferite.

Per prima cosa, Barbie strizza l’occhio al politically correct, su questo non c’è dubbio alcuno. Nel mare magnum di prodotti filmici che, per allinearsi al nuovo orientamento ideologico del XXI secolo, si fanno promotori acritici del rispetto – e, dunque, dell’apparizione sul grande schermo – delle minoranze, anche in quei contesti (come ad esempio quelli storici) in cui alcune di esse sono chiaramente fuori luogo – semplicemente per coerenze di tipo geografico o cronologico che siano – il live action ha tutta l’autorità per farsi portavoce di questa etica. La Mattel, casa produttrice della bambola, si è infatti adeguata tantissimo al principio dell’inclusività, dando vita a Barbie nere, asiatiche, con disabilità fisiche, curvy, una rosa in cui molte più bambine hanno avuto la possibilità di rivedersi.

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Al contempo, è però anche espressione di un altro tema che scotta come una patata bollente, e cioè quello dell’empowerment femminile. Se prima Barbie era simbolo di una bellezza stereotipata, del capitalismo, della sessualizzazione e dell’oggettivazione del corpo, oggi l’icona con cui ci confrontiamo è completamente diversa: vive in un mondo fatto su misura per lei, Barbieland, in cui i Ken annaspano rovinosamente nel tentativo di procacciarsi anche un semplice saluto, e sperimenta una dimensione esistenziale in cui si sente confidente con se stessa, indipendente e soprattutto consapevole di tutte le sue potenzialità.

L’elemento che un po’ stranisce, però, è che tutte le attrici che interpretano le Barbie sono comunque bellissime, gnocche supersoniche da paura – a partire ovviamente da Margot Robbie -, esteticamente conformi a quei canoni che, al contrario, la diversità di cui si fanno portavoce avrebbe dovuto, se non annichilire, quantomeno camuffare molto meglio. E’ un controsenso da capogiro, un boccone dolceamaro non facilissimo da ingoiare, a dirla tutta.

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Nel frattempo, tra un occhio azzurro e un fisico longilineo di troppo, tutte le Barbie si vedono costrette a lottare contro gli uomini, in una guerra che di certo non hanno voluto e scatenato, ma dalla quale sicuramente non si sono tirate indietro. I Ken, grazie ad una rêverie collettiva, capiscono finalmente di essere il sesso forte, di poter domare lo spirito libertino e la voglia di emergere delle donne a suon di addominali, birre ghiacciate e panegirici sull’importanza dei cavalli. Cos’è, allora, Barbie? Una denuncia sociale, nuda e cruda, sul patriarcato?

Ancora una volta, affibbiare un’etichetta univoca potrebbe in qualche modo spegnere la poliedricità e l’estro creativo alla base del prodotto. Il leitmotiv della rappresentazione è un’ironia all’inglese strong, che ricalca per eccesso il profilo del classico maschio alfa, stupido, inutilmente ed insulsamente virile, imbonito dai suoi stessi bisogni, partoriti da infinite ed ingestibili insicurezze. Più che una denuncia, potremmo definirla una pièce teatrale comica alternativa, in cui l’obiettivo è, in primis, quello di portare al riso lo spettatore – ancora una volta uomo o donna che sia poco importa – e in secondo luogo di fornire qualche spunto di riflessione senza la pesantezza cronica del messaggio veicolato dalle morali spicciole.

Barbie recrimina ai Ken qualcosa che in realtà è lei in primis a fare a Barbieland: monopolizza la scena, si vede mittente e destinatario di ogni suo atto, e lo fa ignorando completamente i Ken, sottraendo loro non tanto un’ipotetica importanza, quanto una reale dignità. Tirando le somme, sembra che sia convinta che questi picchi di egotismo fuori misura le siano dovuti in quanto donna, il sesso debole da sempre vessato e sminuito, quasi a sentire l’esigenza di pareggiare i conti di un danno subito e perpetrato nel corso del tempo.

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Alla fine, la poco sofisticata diatriba esistenziale viene chiusa in maniera assai risolutiva, come solo una donna, appunto, avrebbe saputo fare: una migliore e più oculata consapevolezza di quanto i Ken siano necessari alle Barbie, e viceversa, entrambi però completamente avulsi da legami morbosi che vedono i primi delle mere appendici prive di indipendenza ed identità (“Non è Ken, ma Barbie e Ken!“) e le seconde un trofeo da esibire o, addirittura, una figurina da scambiare.

In tutti questi luoghi comuni – che, per quanto comuni che siano, fanno scorrere le due ore della visione lisce come l’olio – ne va annoverato un ultimo, forse di tutti quello più significativo: dopo aver fatto un salto nel mondo reale e sperimentato sia la bellezza sia la bruttezza, Barbie sente di non avere più un posto in quella dimensione fatata e sbrilluccicante che, da sempre e (credeva) per sempre, sarebbe stata la sua esistenza. Questo perché l’esperienza delle cose vere, piacevoli o dolorose che siano (oppure, in taluni casi, entrambe) non può che condurre ad una valutazione certosina su chi siamo e chi vogliamo essere.

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Quella bolla rosa di perfezione, compiutezza e pienezza in cui ha vissuto per così tanto tempo ora le sembra tremendamente scabrosa, difettosa, manchevole di quel quid che riesca a dare un reale valore all’esistenza. Dopo un passaggio obbligato di totale ed incondizionata negazione, alla fine abbandona il conforto di un uomo che la venera ma di cui non ricambia l’affetto, i tacchi alti per un paio di Birkenstock e la routine priva di imprevisti per una vita caotica e a tratti di una banalità disarmante, come la prima visita ginecologica. Un atto di coraggio che, paradossalmente, sembra riuscire ad un oggetto inanimato molto meglio di quanto non riesca ad una persona vera, fatta di intenzioni e propositi.

Barbie sbarca così nel mondo vero, alla ricerca del suo posto. Non è, infondo, quello che vogliamo e cerchiamo tutti? Attribuire un senso ed una direzione alla nostra esistenza. Anche se ci sarà sempre qualcuno pronto a fuggire dalla vita vera, fatta (anche) di delusioni e fallimenti, per una perfezione utopica ed irrealistica, come per Gloria (interpretata, e non a caso, direi, da America Ferrera – cfr. Ugly Betty), totalmente ammaliata da Barbieland. Ma si sa: l’erba del vicino è sempre più verde.

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