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Cinema

Nostalgia, Mario Martone racconta la dimensione intimista del rione Sanità

Tempo di lettura: 4 minuti

Presentato in anteprima alla 75esima edizione del Festival di Cannes e disponibile al cinema dal 25 maggio, Nostalgia è l’ultimo lungometraggio di Mario Martone, che resta saldamente ancorato al microcosmo di Napoli, protagonista preminente ma mai invadente anche dei suoi due film precedenti, Qui rido io (2021) e Il sindaco del rione Sanità (2019).
Il finale del film (e, ancor prima del film, del libro di Ermanno Rea da cui è tratto) non può che convergere in un’unica direzione, come spesso uniche sono le direzioni dei vicoli stretti e fasciati della città partenopea e delle vite che la popolano, segnate a monte da un destino coatto e furibondo. Il viaggio che intraprende Felice (intrepretato da Pierfrancesco Favino) nelle geografie dell’anima quando ritorna nella sua città natale è un viaggio che vale la pena di essere sperimentato nonostante l’atroce atto conclusivo, perché specchio riflesso di una realtà interiore che aiuta il protagonista – e insieme a lui, anche noi- ad acquisire conoscenza di sé.

La nostalgia del titolo non è afferrabile in maniera semplice ed automatica dallo spettatore, che spesso è portato persino ad interrogarsi sulle forme attraverso le quali Felice la percepisca. E’ nascosta nelle anfrattuosità strozzate dell’anima, latente e moribonda da quarant’anni, da quando, senza mai voltarsi indietro, Felice lascia il rione Sanità da ragazzino per seguire lo zio in Oriente. Ma le scelte messe in atto per necessità e mai per volontà sono quelle che castrano l’interiorità portandola quasi sempre al declino, destinate a ritornare come un boomerang al punto di lancio, prima o poi.

Che siano stati i sensi di colpa o un desiderio occulto e recondito di riconciliamento a spingerlo al rientro (o anche entrambe), Felice torna a Napoli dopo una separazione lunga e da lui considerata – solo in superficie – come definitiva. Senza meditare sulle sue azioni più di tanto, Felice agisce, con una spontaneità ed un’ingenuità che appartengono sostanzialmente al mondo dei bambini, per i quali la curiosità non è mai surclassata dall’amarezza della delusione. E’ con gli stessi occhi da bambino che Felice guarda la città, quell’utero urbano che lo ha partorito e che con la stessa violenta propulsione vitale lo ha espulso per consentirgli una salvezza che la promiscuità morale del suo quartiere non gli avrebbe mai concesso.

Felice però è da sempre ferocemente innamorato di Napoli, delle sue strade, delle sue persone, dei suoi consueti e rassicuranti rumori – la macchinetta del caffè che bolle sul fuoco, le urla e i cicalii in dialetto, i motorini che svolazzano a velocità esorbitanti sul basolato storico – che lungi dall’essere tagliati fuori dalla pellicola da Martone, ne rappresentano una matrice fondamentale, al pari di quella visiva. C’è in lui questo dominante e spasmodico desiderio di preservare Napoli, di far conciliare quell’immagine della città da lui percepita nella sua memoria come luogo di felicità e spensieratezza alla realtà cruda e difficile di uno spazio pericoloso.

Ma fattivamente Napoli riesce ad essere le due facce della stessa moneta: sporca e trascurata ma piena di bellezza, infida ma accogliente, detrattore sociale e bagaglio di episodi di vita formativi. Felice ha una profonda difficoltà ad accettarne l’aspetto negativo, per quanto ne abbia fatto esperienza in prima persona, sulla sua pelle; cerca di cancellarne la bruttezza ricercando i luoghi ameni della gioventù, come quando scopre che la madre vive in un basso lugubre e senza finestre e si adopera per comprare una casa che si affacci imponentemente sulla città, incorniciandola come in un quadro.

Attraverso gli occhi – che sono tutto fuorché impersonali – di Mario Martone, Napoli assurge da mera città a calamita emotiva, uno spazio urbano che si trasforma, silentemente, in uno stato d’animo. In un turbinio di sentimenti, in una commistione senza soluzione di continuità tra passato e presente, Felice cerca di riprendere le fila della sua identità nel rappacificamento con due figure cardine, sua madre Teresa ed il suo migliore amico d’adolescenza Oreste (interpretato da Tommaso Ragno), che nient’altro sono se non le due facce, così distanzi e antitetiche, della stessa moneta di cui prima.

La predisposizione con la quale Felice mette mano ad entrambe le situazioni, nel tentativo di ricucire due rapporti cristallizzati dal tempo e dalla lontananza, è sostanzialmente la stessa: si dona con tutto l’amore che la sua anima gentile, cresciuta in una città che di Amore ha impregnati anche i muri delle case, può concedere all’Altro, sia esso una persona conosciuta o un estraneo – che a conti fatti resta tale davvero per poco. E’ il risultato, però, a cambiare radicalmente: mentre la madre lo accoglie come se il figlio fosse andato via solo il giorno prima in uno stato di estasi e felicità perenni, Oreste vive molto male il ritorno del suo ex amico, scomparso all’improvviso senza dare notizia alcuna di sé e forse anche parzialmente responsabile del rovinoso destino cui Oreste ha dovuto cedere – divenendo “o’ malomm” del rione.

Senza critica o impostazione acrimoniosa, Martone indaga la dimensione intimista di uno tra i rioni più complessi di Napoli, nel tentativo di raccontare quanto la realtà sociale possa incidere, positivamente o negativamente che sia, sulla formazione di una persona.

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