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Una scena di Nope

Cinema

Nope, fuga dalla spettacolarizzazione a tutti i costi

Il terzo film di Jordan Peele è una metafora fanta-horror sullo show business dove anche chi si trova ai margini finisce poi per diventare parte integrante di un sistema spietato e ricattatorio.

Tempo di lettura: 4 minuti

Attenzione! La recensione di Nope contiene spoiler sul film.

Secondo le statistiche le possibilità di morire venendo colpiti da oggetti che cadono dall’alto – ad esempio da un aereo – sono quasi trenta volte maggiori rispetto a quelle di essere sbranati da uno squalo. Sono molte di meno, invece, le possibilità di essere uccisi da uno scimpanzé impazzito. Ma a qualcuno è capitato, così ci racconta l’incipit di Nope, il terzo film scritto e diretto da Jordan Peele di nuovo al cinema a tre anni dal successo di critica e di pubblico di Noi.

In effetti all’inizio di Nope c’è anche chi muore per qualcosa caduto dall’alto. Capita al vecchio proprietario dell’Haywood Hoolywood Horses, un ranch a gestione familiare dove si addestrano cavalli da utilizzare su set cinematografici. Venuto a mancare, la gestione del ranch passa nelle mani dei due figli, O.J. ed Emerald (gli attori Daniel Kaluuya e Keke Palmer), il primo bravo ad addestrare gli equini e la seconda molto più capace a piazzare sul mercato gli animali grazie alla sua loquacità. Certo, non hanno più di tanto il fiuto per gli affari che aveva il padre, tanto dallo stipulare un accordo con un certo Jupe, gestore di un parco divertimenti a tematica western, che con Hollywood, in quel momento ben preciso, c’entra poco e niente. E’ quasi certamente la storia che Jupe gli racconta a convincere i due fratelli a cedere i loro cavalli per i gli show a tema. Jupe, di origine asiatica, è l’unico sopravvissuto del cast della sit-com di fine anni ’90 intitolata Gordy, nome di uno scimpanzé che di punto in bianco impazzisce e uccide tutti gli attori sul set, salvando solo lui che, ancora bambino, era tra i protagonisti.

Daniel Kaluuya

Sentirsi il Prescelto, sostituirsi alla volontà di Dio, cercare di domare l’indomabile. Dopo la tragedia a cui ha assistito, Jupe pensa che lui possa superare qualsiasi cosa gli si presenti davanti, financo la minaccia di oggetto non meglio identificato che appare sovente sopra il suo parco a tema e nei pressi del ranch dei due fratelli. Capitalizzare economicamente una tragedia vissuta sulla propria pelle trasformando la sua vita in un eterno show. Trarre profitto dalle tasche dei visitatori assetati di storie al limite del credibile. Uno spunto che fa riflettere e non poco O.J. ed Emarld, desiderosi di catturare l’immagine dello strano e terrificante oggetto che sorvola la loro abitazione e che intuiscano solo in un secondo momento essere il vero killer del padre. Il loro obiettivo diventa, allora, solo uno: scattare l’immagine impossibile. Da catturare con ogni mezzo a disposizione, dalle telecamere di sorveglianza a quelle analogiche di un documentarista à là Werner Herzog. E’ l’Immagine che ai due fratelli serve per dare una svolta alle loro vite. E non si tratta soltanto di un mero fatto economico. E’ il diventare in breve tempo e senza troppa fatica conosciuti e famosi; è l’essere presenti nei social e nei media come topic ricorrente; è il creare un contenuto virale che gira il mondo in pochi secondi. E’ trovare, come ripetono più volte i due, l'”inquadratura da Oprah”, regina dei talk show americani. Se è lei a invitarti nel suo show, allora vuol dire che hai fatto centro, che sei diventato qualcuno (sì, ma per quanto?, questo i due sembrano non chiederselo).

Alla terza prova da regista, Jordan Peele mette un po’ in secondo piano le idiosincrasie razziali che invece sono state il fulcro principale dei suoi primi due film (Scappa – Get Out e il già citato Noi). In Nope a Peele interessa più il concetto che risiede dietro a un atto ben particolare e che tutti i giorni la popolazione terrestre compie nei confronti di qualcosa: l’atto del guardare. Guardare nel senso di essere attratti. Guardare per puro piacere. Guardare un qualcosa che “non fa bene” in quanto fonte di pericolo. Il tutto filtrato – sempre, ormai – da un medium che, forse, viene scambiato per barriera protettiva tra lo sguardo e quello che accade davanti, anche l’indicibile. E sono proprio le cronache di questi giorni a portarci alla mente quanto questo concetto sia molto attinente alla realtà.

Steven Yeun in Nope

Per Jordan Peele l’occhio che risucchia e poi risputa quello che non gli serve più è lo spietato mondo dello show business – anche se, volendo, le letture possono essere molteplici e variegate. Non solo Hollywood, e quindi il cinema, ma un intero sistema che sfrutta i malcapitati fin quando necessario per poi disfarsene quando il contenuto risulta troppo indigesto.
Ed è proprio nella bulimia di contenuto il trucco per annientare il mostro, per distruggerlo senza mai guardarlo negli occhi. Il libro di Naum contenuto nella Bibbia e citato in apertura di film descrive bene questo malsano rapporto tra l’intrattenimento e il fruitore: “Getterò su di te un’abominevole lordura, ti umilierò e ti esporrò al ludibrio”.

Se accantoniamo per un momento le molteplici metafore del film, anche in Nope Jordan Peele si conferma essere un abile narratore per immagini (girate per trovare la loro massima espressione sul grande schermo, è bene ribadirlo). Un autore capace di creare una costante e crescente tensione man mano che la pellicola avanza e di rendere una scena apparentemente minimal (scevra di fronzoli e di chissà quali effetti speciali) una scena cinematografica nella sua quintessenza.


Nope
trama: Il film riunisce Peele con il premio Oscar® Daniel Kaluuya (Scappa – Get Out, Judas and the Black Messiah), a cui si uniscono Keke Palmer (Le ragazze di Wall Street, Alice) e il candidato all’Oscar® Steven Yeun (Minari, Okja) nei panni dei residenti di una solitaria valle della California interna, testimoni di una scoperta inquietante e agghiacciante.
regia: Jordan Peele
sceneggiatura: Jordan Peele
durata: 130 minuti
disponibile: al cinema dall’11 agosto 2022


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