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Cinema

Natale al cinema, tra una saga che finisce e una storia immortale

Le nostre impressioni sui principali film al cinema (e su Netflix) del periodo natalizio: l’ultimo di Star Wars, Pinocchio, La Dea Fortuna e I due papi.

Tempo di lettura: 6 minuti

E anche quest’anno è Natale. Da passare in famiglia, con i propri affetti, con gli amici. E anche al cinema. La tradizione vuole che durante le festività natalizie gli italiani conquistino le sale cinematografiche, riempendole come succede poche altre volte nel corso dell’anno. Non sono più i natali di una volta, sentirete dire dagli esercenti delle sale italiane. E’ vero. Non ci sono più i cinepanettoni che fino ad una decina di anni fa sbancavano il botteghino natalizio. Il genere è andato esaurendosi nel corso della decade che sta per giungere al termine. Ogni tentativo di rivitalizzarlo è fallito ineserobilmente. Solo un revival come il ritorno della coppia Boldi – De Sica lo scorso anno ha fatto registrare incassi soddisfacenti, ma comunque lontanissimi dalle cifre esorbitanti degli anni d’oro. E in attesa che il fenomeno Zalone arrivi a sparigliare le carte (batterà se stesso? Perderà qualcosa per strada? Al momento non è facile prevederlo), al cinema a Natale ci sono film che, mai come quest’anno, cercano di accontentare un po’ i gusti di tutti.

Ho visto i principali, di cui vi rendo conto in quest’articolo.

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Star Wars – L’ascesa di Skywalker

42 anni dopo la saga nata da un’idea di George Lucas arriva ad una conclusione. La terza trilogia (quella degli episodi che vanno dal VII al IX) è nata nel 2012 quasi in concomitanza con l’annuncio dell’acquisto della Lucasfilm da parte della Disney. C’era da dimenticare, in fretta, i mezzi disastri fatti da Lucas con la trilogia prequel (episodi I, II, III). J.J. Abrams si prende la briga di proseguire la storia terminata con l’episido VI, Il ritorno dello Jedi. Lo fa, nel 2017, con Il risveglio della forza, richiamando sul set i principali protagonisti della prima trilogia (episodi IV, V, VI): i fratelli Skywalker, Han Solo, Chewbecca e via dicendo. E li affianca a nuovi personaggi. L’operazione messa su da Abrams ha più il sapore del revival che di chi vuole dare un preciso imprinting ad una delle saghe più apprezzate della storia del cinema.

Daisy Ridley in L'ascesa di Skywalker

Due anni dopo, nel 2017, per l’episodio VIII viene chiamato Rian Johnson. Che non bada a convenevoli e destruttura – come ha fatto anche con il genere giallo in Cena con delitto – l’universo di Star Wars un po’ come vuole lui, con quel suo fare anarchico e, secondo alcuni, irrispettoso. Gli ultimi Jedi divide completamente i fan, tra chi ha apprezzato una netta sterzata verso un qualcosa di più personale e chi invece chiede a gran voce il ritorno di Abrams. Che, guarda un po’, viene richiamato per dirigere l’episodio conclusivo della saga, L’ascesa di Skywalker, silurando il povero Colin Trevorrow.

Fin qui, in breve, la cronostoria a cui è andata incontro l’ultima trilogia. Abrams cerca di riposizionare le pedine lì dove devono stare e giocare una partita coerente e sincera con i fan di Star Wars. Non vuole deluderli nuovamente, ma con questo presupposto il regista gira, forse caricato di troppe responsabilità, un episodio conclusivo che lascia il più delle volte l’amaro in bocca. Quando vuole stupire con qualche colpo di scena, risulta scontato. Quando vuole puntare sulla forza e la coesione del gruppo dei protagonisti, risulta melenso. Nonostante più di qualcosa funzioni e il ritmo non cede mai il passo – la sceneggiatura, quella sì che cede – l’episodio IX celebra il funerale dell’ultima trilogia ma anche della saga stessa (e delle copie sbiadite dei ‘nuovi’ personaggi rispetto ai loro predecessori, mai stati convincenti fin dalla loro prima apparizione). In attesa che in quella galassia lontana lontana torni ad accadere qualcosa.

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Pinocchio

Ha sempre fatto e continua a fare gola a molti la favola immortale di Pinocchio. I motivi per la quale questa favola, uno dei libri più letti al mondo dopo la Bibbia, suscita tutt’oggi l’interesse di registi teatrali e cinematografici sta tutto nella storia narrata da Carlo Lorenzini in arte Collodi tra il 1881 e il 1882. Una storia magica piena di signficati, un vademecum comportamentale, un ritratto schietto, sincero ed umano della crescita di un bambino. Che non nasce bambino, ma pezzo di legno. E che lo diventerà, poi, un bambino che un giorno sarà un uomo fatto e finito.

Federico Ielapi è Pinocchio

Si vede che Matteo Garrone aveva voglia di raccontare anche lui questa storia. Il suo Pinocchio. E nel suo Pinocchio tutto è nel posto giusto. Ci sono i personaggi che ci devono essere: il burattino Pinocchio, Geppetto, Mastro Ciliega, la Fata Turchina, Mangiafuoco, Lucignolo e altri ancora. C’è la storia, estremamente fedele all’originale. C’è un cast di una bravura mostruosa, dal Benigni/Geppetto contenuto e sottratto al Mangiafuoco burbero ma dal cuore d’oro di un ottimo Gigi Proietti, passando da uno straordinario Massimo Ceccherini, la Volpe che fa coppia con il Gatto Papaleo. Allora cos’è che manca al Pinocchio di Garrone?

Manca un po’ di cuore, d’anima e quel guizzo che avrebbe trasformato la storia di Pinocchio nel Pinocchio di Matteo Garrone, che è bravo a non strafare, a non andare troppo fuori dal seminato, a restituire alla storia quel sapore artiginale e realista nonstante le basi fantasiose. Al film, però, manca anche la componente autoriale, la sua firma, che da un regista come Garrone ci si sarebbe aspettato. Ma il regista romano, forse volutamente, decide che il modo migliore per raccontare una favola è proprio quello di rispettarla in toto, magari anche divertendosi. E allora, solo in quel senso si può dire che Pinocchio per Garrone è un’operazione riuscita.

La Dea Fortuna

Alessandro e Arturo sono una coppia sull’orlo della crisi. Circola aria pesante all’interno della loro bella casa di Roma. L’occasione per ripianare le incomprensioni e mettere a freno i reciproci tradimenti gli viene offerta da una loro amica, Annamaria, che gli affida per un periodo di tempo i due figli. Lei sta passando un momento delicato, deve farsi degli esami per scoprire da cosa derivino quelle frequenti e dolorose emicranie.

Una scena de La dea fortuna

Il cinema di Ferzan Ozpetek è sempre stato un intersecarsi di varie cose: vita e morte, dramma e commedia, crisi e rinascita. Temi che il regista italo-turco ha sempre messo in scena con un approccio molto allegorico lasciando alla musica il compito di sottolineare i momenti topici del film. Tutto questo si ritrova anche ne La Dea Fortuna, l’ultima sua fatica che nasce da un evento che Ozptek ha vissuto quasi in prima persona.

Ci sono tavoli imbanditi di cibo, terrazze gigantesche, vicini di casa e amici con cui condividere le serate, balli di gruppo sotto la pioggia. E’ il cinema di Ozpetek all’ennesima potenza, che piaccia o no. Un cinema come spesso accade bulimico, che aggiunge tematiche e personaggi fino all’inversomile, che cambia spesso registro (qui si sconfina anche nell’horror) ma che, almeno per chi scrive, non trova mai una sua unità d’intenti. E neanche un ottimo Edoardo Leo, forse alla sua miglior interpretazione della carriera, riesce a salvare il film da un finale che rasenta l’imbarazzante.

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I due papi

Si parla sempre di cinema, ma questa volta dal grande schermo si passa a quello piccolo dove gli abbonati a Netflix possono assistere all’ultimo lavoro del regista brasiliano Fernando Meirelles, I due papi. Il film ha saltato a piè pari i principali festival di fine estate per approdare direttamente sulla piattaforma di streaming negli ultimi giorni dell’anno.

Da un parte Papa Ratzinger, fervido conservatore, dall’altra il Cardinale Jorge Maria Bergoglio, più aperto a posizioni progressiste. In mezzo la Chiesa, un’istituzione che a cavallo tra il 2010 e il 2013 vive un profondo periodo di crisi, tormentata com’è da continui scandali: prelati che abusano di minori, documenti segreti trafugati da talpe interne, ombre sulla gestione dello IOR (la banca vaticana). E’ proprio quel delicato periodo di tempo che a Meirelles interessa raccontare attraverso l’incontro/scontro tra due personaggi carismatici ma profondamente diversi come Ratzinger e Bergoglio. Due modi diversi di intendere e di vivere la vocazione che, per il bene della Chiesa, devono trovare un loro punto di incontro. Il delicato e difficile passaggio di consegne tra un Papa e l’altro – Bergoglio arriva in Vaticano con la lettera di “dimissioni” da cardinale – è da fare nel più breve tempo possibile.

Antony Hopkins e Jonathan Pryce in I due papi

A I due papi piace giocare facile, schierando una coppia da 90 come Antony Hopkins e Jonathan Price. Niente da dire sulla loro enorme bravura. Ma se Price azzecca in pieno, forse aiutato anche da un’impressionante somiglianza fisica, il ruolo affidatogli, quello del Cardinale Bergoglio, fa invece storcere un po’ il naso l’Hopkins-Ratzinger, mai del tutto convincente; così come a non convincere sono alcune scene prolisse e ridondanti con il quale Meirelles cerca di allungare inutilmente il brodo (una su tutte: il lungo ed estenuante flashback sul ruolo di Bergoglio durante la dittatura in Argentina).

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