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Anniversari

Il Club dei 39, Hitchcock tra giallo e commedia

Usciva nei cinema di tutto il mondo 85 anni fa Il club dei 39, primo film “alla Hitchcock” del maestro della suspense.

Tempo di lettura: 4 minuti

Un regista non ha niente da dire, deve mostrare.

L’omicidio di una donna accoltellata alla schiena, gli intrighi di un gruppo di spie e i loro segreti. Un innocente accusato ingiustamente. La nascita di un amore tra un uomo e una donna che le circostanze hanno fatto incontrare; gli inseguimenti tra gli aridi paesaggi scozzesi. Mostrare, rappresentare tutto privilegiando le immagini ai dialoghi, per lui, Alfred Hitchcock, è sempre stato il principale obiettivo, retaggio di quel cinema muto che era stata la sua prima palestra professionale e artistica.

Il club dei 39 è un film alla Hitchcock, forse il primo, vero, film alla Hitchcock, certamente il manifesto di tutto il suo “periodo britannico” (come anni dopo Intrigo internazionale sarà il manifesto del “periodo americano”). È una storia di inganni e misteri ma è sostanzialmente un giallo travestito da commedia e una commedia intrappolata nella struttura da film giallo.

È il film con cui Hitchcock, dopo il successo de L’uomo che sapeva troppo nel 1934, compie un ulteriore passo di avvicinamento a una stilizzazione tipicamente americana, “forzando” la sceneggiatura, sfrondandola da qualunque orpello di verosimiglianza per privilegiare la ricerca di emozioni più direttamente incisive. I critici non glielo perdoneranno mai, ma lui puntualmente ha sempre risposto che se si pretendesse di applicare il criterio della verosimiglianza e della plausibilità al cinema, allora non resterebbe che dedicarsi ai documentari.
No, è evidente che il criterio era, ed è, inapplicabile: sarebbe, come non mancava spesso di sottolineare Hitch, come chiedere a un pittore figurativo di raffigurare gli oggetti con esattezza!

Il cinema di Hitchcock viaggia verso un’altra meta, con un altro passo: ha l’ambizione di instaurare un rapporto diretto con lo spettatore, di emozionarlo, impaurirlo se è il caso, trascinarlo in un vortice di mistero, di ambiguità; e per fare questo non può limitarsi a mostrare la realtà (lui che ad un pezzo di vita preferiva un pezzo di torta), non può preoccuparsi della verosimiglianza della sua storia, se è una storia non banale. Ciò che conta è l’azione e come viene mostrata.
In questo senso ciò che realmente cattura l’occhio, la mente e il cuore dello spettatore, anche a distanza di 85 anni dalla sua prima proiezione sugli schermi, de Il Club dei 39 è la sua rapidità.


Si ha come l’impressione di trovarsi di fronte una sequenza di episodi montati insieme ad un ritmo forsennato: dalla sequenza al teatro con cui si apre il film, all’assassinio dell’agente che vuole proteggere i segreti dalle spie nemiche Annabella, alla fuga verso la Scozia di Hannay sospettato dell’omicidio; e poi l’inseguimento in treno, l’incontro con la bella sconosciuta Pamela che invece di reggergli il gioco lo denuncia, la notte trascorsa in casa del contadino e della sua gentile e giovane moglie e ancora la fuga, braccato dalla polizia; l’incontro con il misterioso professore senza il mignolo, il tentativo di omicidio, la fuga dalla stazione di polizia e lo scambio per un candidato locale e il conseguente smascheramento proprio da parte di Pamela; è tutto un susseguirsi rapidissimo di vicende, di situazioni, di incontri, che hanno ora la funzione di accrescere il tono drammatico del film, ora di alleggerirlo attraverso il registro della commedia, come testimoniato dalla sequenza dei due venditori di biancheria intima femminile in treno.

E poi, c’è la straordinaria tecnica di Hitchcock, espressa al massimo livello nella famosa sequenza della preghiera. Il protagonista Hannay ha trovato ospitalità presso un contadino e la sua giovane moglie, nella sperduta campagna scozzese. I tre seduti a tavola, il contadino inizia a recitare la sua preghiera di ringraziamento. Un giornale sulla tavola mostra la notizia di Hannay ricercato per omicidio; Hannay vede il giornale, guarda la donna, la donna guarda il giornale, di nuovo Hanney e capisce; i due si guardano, lei severa, lui supplicandola di tacere; il contadino si accorge del gioco di sguardi tra i due e comincia a farsi sospettoso. Nessun dialogo, solo la preghiera recitata in sottofondo: il pathos della scena, tutta la sua forza drammatica è splendidamente creata semplicemente tramite le immagini e gli stacchi ora sugli occhi supplichevoli di Hannay, ora su quelli prima impauriti e poi complici della donna, ora su quelli diffidenti del contadino.

Ma Il club dei 39 è una pellicola centrale nella filmografia di Alfred Hitchcock anche per la presenza di uno dei più famosi e più riusciti Mac Guffin della sua carriera. La scintilla che avvia l’azione nel cinema Hitchcockiano a volte si perde per strada (i soldi rubati in Psyco), altre volte non è nulla di concreto (i “segreti” in Intrigo internazionale); ne Il club dei 39 si assiste addirittura all’originale trovata della personificazione del Mac Guffin, dal momento che il segreto che i 39 scalini tentano di portare fuori dal paese altro non è che una formula matematica imparata da Mister Memoria, artista teatrale dalla mente prodigiosa.

È vero, il finale è forse un po’ troppo sbrigativo, ma è figlio di quella rapidità di cui tutto il film si nutre. In poco meno di due minuti la maestria di Hitchcock riesce a mostrare la morte di Mister Memoria, vittima del proprio attaccamento al dovere, una morte eroica e insieme quasi melodrammatica (sente di dover rispondere a chi gli chiede cosa siano i 39 scalini), e a dare lieto compimento finale alla storia d’amore tra Pamela e Hanney, con l’ultima inquadratura sulle loro mani che si cercano, si incontrano e si stringono.

Un po’ come si cercano, si incontrano e si stringono tutti gli elementi nel cinema di Alfred Hitchcock.

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