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Una scena di Il figlio di Saul

Cinema

Capire le parole di Liliana Segre con Il figlio di Saul di László Nemes

Il figlio di Saul di László Nemes irrompe nel mondo del cinema nel 2015, vincendo praticamente tutto il vincibile. E’ un film sulla Shoah e prima di vederlo bisognerebbe chiedersi se davvero sia possibile dire e fare qualcosa di nuovo sulla Shoah, al cinema.

Tempo di lettura: 3 minuti

Domenica 26 gennaio 2020, la senatrice a vita Liliana Segre – testimone oculare dell’orrore nazista di Auschwitz – è ospite del programma Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio. Ad un certo punto, il conduttore le chiede quale sia il primo ricordo del campo di sterminio, appena scesa dal treno. Segre risponde con un po’ di difficoltà raccontando quello che ricorda: “…c’era una folla enorme, c’erano soldati, prigionieri, questi ometti con la divisa che freneticamente ci separavano e facevano mucchi di bagagli […] come quando vedi un film accelerato: ecco, quello era così accelerato che non ti faceva capire cosa stesse succedendo”. Questa sensazione -senza l’accelerazione- la comunica bene un film di qualche anno fa.

Il figlio di Saul di László Nemes irrompe nel mondo del cinema nel 2015, vincendo praticamente tutto il vincibile. E’ un film sulla Shoah e prima di vederlo bisognerebbe chiedersi se davvero sia possibile dire e fare qualcosa di nuovo sulla Shoah, al cinema. Sul tema è già stata detta qualsiasi cosa possibile: da La scelta di Sophie a Shindler’s List, dal Diario di Anna Frank a Il pianista, da Train de vie a La vita è bella, attraversando oltretutto praticamente qualsiasi genere cinematografico. In quasi tutti i film dedicati alla Shoah vengono mostrati gli orrori perpetrati nei campi di concentramento, mettendo in scena l’insensata violenza dei nazisti nei confronti delle inermi vittime.

Una scena di Il figlio di Saul

Realizzare quindi un film utilizzando una grammatica “classica” sarebbe stato quindi quasi impossibile e confrontarsi direttamente con mostri come Spielberg o Polanski avrebbe potuto essere estremamente difficoltoso per un regista alla sua opera prima. Probabilmente per questo Nemes ha seguito un approccio diverso: il film è girato con uno stile del tutto particolare e originale. Nemes sceglie di girare il suo film in 4:3 per avere uno schermo ridotto e di tenere la macchina da presa sempre addosso al suo protagonista trasmettendo una sensazione di precarietà, ansia, claustrofobia e anche – forse soprattutto – confusione. Rifuggendo da qualsiasi spettacolarizzazione e fingendo un unico piano sequenza, sfocando quanto più possibile gli elementi più lontani dal centro dell’azione, Nemes riesce a fare dello stile la ragione d’essere del film e riuscendo a trasmettere emozioni non attraverso quello che viene mostrato ma attraverso “come” questo viene mostrato. In sostanza lo stile è il film.

In questo modo Nemes riesce a trasformare l’ennesimo film sulla Shoah in un’esperienza. Riesce a trascinare lo spettatore direttamente dentro l’orrore del campo, facendo vedere pochissimo la violenza e lasciando invece spazio allo spaesamento e all’annullamento della personalità. Per 107 lunghissimi minuti siamo trascinati, sballottati dentro un campo nazista, nulla di quello che ci avviene attorno ha un senso se non il trasmetterci quella continua sensazione di insicurezza che, con ogni probabilità avevano anche gli internati nei campi. Una sensazione di insicurezza pervasiva, quella trasmessa dal film di Nemes, ma anche una sensazione di confusione data dal continuo suono di sottofondo fatto da voci e rumori che entrano prepotentemente nel microfono e vengono sparati nel sistema audio del cinema aumentando quel disturbante senso di confusione. Queste sensazioni sono in contrasto con quella normalmente associate ai campi di sterminio di macabra efficienza, anche se a ben vedere le due cose non sono in contrasto: è abbastanza normale che all’interno dei campi ci fosse confusione e instabilità.

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