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Cooperazione Kenya

Attualità

Storie di cooperazione che unisce: Andrea, il Kenya e la banalità dell’ipocrisia

Dopo la liberazione di Silvia Romano abbiamo scelto di approfondire il tema della cooperazione e del volontariato internazionale attraverso alcune storie di ragazze e ragazzi che hanno scelto di essere utili in Paesi differenti dai loro. Questa che vi proponiamo è la storia di chi ha scelto di agire “global” in nome di un concetto spesso sottostimato. Quello di Essere Umano, come entità e come proposito di vita. Andrea è il primo approfondimento su un tema impossibile da affrontare senza aver avuto esperienze di questo tipo. “Cooperazione in parallelo: solo così è possibile un mondo diverso”

Tempo di lettura: 10 minuti

La cooperazione come scelta. Di vita, di lavoro, di cultura e di filosofia. Ma solo in parallelo, altrimenti ha poco senso. E la forte visione di un mondo che può essere migliore, nonostante tutto. Abbiamo deciso di approfondire il discorso della cooperazione e del volontariato internazionale, faccia di una stessa medaglia spesso travolta da una miriade di luoghi comuni, spesso sciocchi, spesso cattivi, sempre ipocriti. Perché se possiamo perdonare l’ignoranza, è impossibile fare lo stesso con l’ipocrisia. Perché il nostro è un mondo di persone che vuole la regolarizzazione degli immigrati, ma solo per paura di non avere l’insalata a tavola e non per il valore della persona in sé. Un mondo che ci vuole global, sempre inteso come “subire” e mai come “agire”. Un mondo che in molti vogliono slegare ma che slegare è impossibile. Questa è la visione di Andrea, volontario dell’associazione Atlantide, da anni nella cooperazione internazionale con la realizzazione di progetti umanitari e sociali certamente in Africa ma non solo. E’ con lui che abbiamo affrontato la storia di Silvia Romano e le polemiche a questa correlate. Perché slegare è impossibile, e non è la solita storia della farfalla che batte le ali e blablabla, la storia che già conosciamo. E il problema del mondo non sono le persone cattive. Di solito i cattivi, nelle grandi storie, perdono, a lungo andare. Lo insegna la storia, non noi. Altro discorso è quello degli stupidi. Quelli che pensano che i negri – “di colore” è roba solo per noi perbenisti –  siano tutti buoni oppure tutti cannibali oppure che gli italiani siano “brava gente” o “pizza, mafia e mandolino” e infine quelli che i cooperanti siano tutti santi. O tutti fiancheggiatori dei terroristi. Quanto ci si mette a far ragionare uno stupido? Potremmo andare avanti ore. Ma è il momento di far parlare andare Andrea.

Il filo diretto

Su quello che porta un ragazzo – o una ragazza ovviamente – a scegliere la via della cooperazione e del volontariato internazionale non è possibile fornire una sola direzione. Per Andrea è stata la consapevolezza di un filo rosso che unisce qui e lì. “Quando sono partito la prima volta non mi ponevo di certo la differenza di un confine geografico, avevo la netta sensazione che lavorare in un Paese in via di Sviluppo avesse un filo diretto con il lavoro qui in Italia, perché il mio Paese e quelli in cui sarei andato erano solo due facce dello stesso sistema e sentivo la voglia e il desiderio di costruire un mondo diverso”. La scelta è ovviamente poi del tutto personale. In base a questo approccio Andrea sceglie una Ong piccola, senza finanziamenti, che si muove e lavora in Africa con canali totalmente diversi da quelli istituzionali e da quelli delle stesse grandi ong. L’essere umano al centro di un mondo costruito sull’autosviluppo, con meno squilibrio, più giustizia e solidarietà. “Tutto in cooperazione, in parallelo tanto in Italia che in Kenya, Uganda e Tanzania che sono i Paesi in cui ho operato. Non poteva esserci un cambiamento a senso unico. Era come pensare al cambiamento personale e collettivo, non può esserci l’uno senza l’altro, non puoi cambiare il mondo se non sei pronto a cambiare te stesso, non puoi lavorare su ciò che ti circonda se non sei pronto a lavorare e affrontare te stesso”. L’evoluzione del percorso di Andrea ha maturato la sua scelta del volontariato, dal ragazzo all’uomo in continuo viaggio, forse un po’ più uomo anche grazie a quelle esperienze. E una nuova definizione del termine “volontariato”, che diventa esercitare la propria volontà. Un atto liberatorio, identitario e rivoluzionario, in un sistema che stringe e condiziona come quello attuale.

Cooperazione Kenya

C’è un prima e c’è un dopo

Ci sono le aspettative. E c’è la realtà dove si arriva, per rendersi utili, aiutare, cooperare: questa è sempre completamente diversa da qualsiasi immaginazione e racconto. “Questo perché tutto questo viene vissuto con un carico emotivo ed empatico di un livello assoluto. Pensi sempre di partire per dare e ti rendi conto che prendi più di quanto tu abbia dato. Riscopri un’essenzialità della vita che spesso perdi tra mille sovrastrutture e privilegi e capisci che a volte anche alcuni stessi sentimenti sono privilegi. Amore, odio, la stessa indignazione sono dei privilegi in determinate situazioni”. Un prima, un dopo e un momento in cui l’ottica cambia del tutto. “Per me è stato il primo viaggio dove non ero né un semplice cooperante. Né ero solo. Quella volta ero insieme ad altre persone da coordinare, a cui poter passare qualcosa: c’è stata una sensazione di continuità che mi ha riempito, ci sono state emozioni di ritorno ben più grandi delle mie stesse emozioni provate.

La paura

Chi semplifica queste esperienze dovrebbe senza dubbio provarle. A cominciare dalla paura, spesso compagna di viaggio per molti volontari. Per Andrea la paura ha avuto la forma di un commissariato locale. “Una sensazione totalmente ambivalente. Da una parte c’era la sensazione di lavorare nella direzione giusta, perché in quel caso si iniziava a dare fastidio a chi era abituato a lavorare a favore e protezione di multinazionali, politici locali detentori del potere e grandi ong o chiese. Dall’altra però temi per la sorte dei tuoi amici. Quelli che non erano bianchi né occidentali, che sono per questo più esposti. E allo stesso tempo per la tua, di sorte, pur consapevole di essere in quel momento dalla parte di una giusta causa”. Lo diciamo senza giri di parole. Parliamo sempre di missioni pericolose. Ve lo potranno confermare volontari, cooperanti e missionari che hanno vissuto in determinati ambienti. Chi decide di recarsi in posti dove si vivono drammi quotidiani ha ben chiaro il suo obiettivo, e non è di certo quello per ballare scalzo intorno al fuoco come i protagonisti delle commedie anni 80. Un lato da considerare è quello dei pericoli igienico-sanitari, quasi impensabili alle nostre latitudini. Ma non solo. “Il secondo lato è quello sociopolitico: vai a sovvertire un mondo che parte da qui, che vive e specula e prolifica sulle totali differenze tra le persone e sul totale disequilibrio della ricchezza, il solo semplice creare una piccola cooperativa in cui le persone coltivano la terra per il proprio bisogno alimentare e per la propria indipendenza economica anziché spaccarsi la schiena per una qualsiasi multinazionale del caffè, del tè, o di quello che vuoi, crea un pericolo assurdo. Sei nella terra di nessuno e combatti per nessuno ma contro nessuno”. Andrea pone l’accento anche sul versante psicologico e culturale. “Sei di fronte ad una totale ridiscussione di tanti dei tuoi principi. Il rischio è quello di crollare, mettere in discussione tutto, anche te stesso. Il che come spunto non è male, lo diventa la perdita totale di te stesso e della tua certa o presunta solidità. Concetti come pietà, altruismo, giustizia, tutela, differenze di genere, religione, dignità e quanti altri assumono improvvisamente tutto un altro significato”.

Cooperazione Kenya

La tutela e l’ottica personale di Andrea

Ci sono delle differenze tra grandi e piccole ONG, e questo è assolutamente inevitabile. Per quello che riguarda la sua esperienza, Andrea tenta di racchiuderla in una sola parola: Particolare. “Ho sempre cooperato attraverso una ong che rifugge molti canali classici ed istituzionali perché da sempre troppo conniventi con lo stesso sistema al quale teoricamente vorresti portare un pizzico di giustizia ed equità in più”. E’ piuttosto semplice il ragionamento. Tutele private, assicurazioni, assistenze e scorte rischiano di partire già da gradini differenti con le persone con cui cooperi. “E’ soltanto una mia opinione personale, ma ciò non permette di parlare di equità”. Equità come base del lavoro di Atlantide. “Se vado a cooperare e per cercare di promuovere un autosviluppo basato sull’autodeterminazione, sull’uguaglianza di ogni essere umano e poi quando loro tornano in una baracca io me ne vado in albergo, beh, sono poco convincente”, racconta Andrea. Ed è spesso la provenienza geografica la vera e propria “assicurazione sulla vita”. Lo dice il ragazzo, senza troppi giri di parole. “La verità è che a volte, nella stragrande maggioranza dei casi, la nostra stessa provenienza è una garanzia. Se veniamo arrestati io ed un volontario locale o se veniamo catturati da un gruppo terrorista io ed un volontario locale io ho comunque più possibilità di sopravvivenza”.

Accoglienza e tolleranza: facce della stessa medaglia

C’è un concetto di accoglienza, di cooperazione, di ospitalità che è impossibile, ormai, da descrivere a parole per noi. A volte riscontro qualcosa dei racconti di mio nonno, del mondo di quando lui era bambino e mi fa rabbia perché la vedo sempre più lontana dalla mia quotidianità. E’ indescrivibile”. Basterebbero probabilmente queste parole per raccontare la differente visione del mondo e degli altri nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. E per capirlo basta provarci anche soltanto una volta, anche a casa di quei musulmani così temuti dai più. Questo ovviamente in linea generale, perché in Stati tanto grandi è assolutamente impossibile tentare di dare una visione uniforme del tema. “Questo perché i Paesi di cui parliamo si differenziano da regione a regione, da etnia a etnia. Mistificare o demonizzare qualcosa in totale è uno degli atti più stupidi che si possa fare. Se dovessi parlare del Kenya che è il Paese in cui ho operato maggiormente posso dire che, ad esempio, c’è una tolleranza religiosa mai vista in Italia, c’è una tolleranza incredibile per le diverse nazionalità ma, ad esempio c’è una tolleranza totalmente minore per le differenze di genere o per le differenze interetniche. Potrei dire, ad esempio di aver visto più tolleranza verso gli esseri umani di quanto ce ne sia ormai in Italia, ma allo stesso tempo un minore valore umano alla vita umana, eppure sono due cose strettamente connesse”.

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Il caso Silvia Romano

Nel peggio di sé che molti hanno mostrato in merito alla notizia della liberazione di Silvia dopo mesi e mesi di prigionia, tra le tante brutture è apparso il paragone tra la nostra quarantena e la sua prigionia. Sì, accade anche questo. “Mi sembra assolutamente imbarazzante parlarne ma diciamo che se penso alla mia quarantena, senza pensare a comfort che altri possono o non possono avere, credo di poter dire di averla fatta a casa mia, con persone a me care o quantomeno conosciute, parlando la mia stessa lingua, potendo esprimere i miei bisogni primari e talvolta molto spesso soddisfacendoli, e trovando anche una certa empatia e comprensione per l’esperienza vissuta, essendo connesso comunque a milioni di altri persone con cui potermi confrontare e discutere e per un lasso di tempo relativamente breve rispetto ad un rapimento”. Una “prigionia” in una confortevole casa occidentale contro una prigionia vera, in un continuo spostamento, sotto il controllo di rapitori. Altro che paragoni.

Ma l’analisi di Andrea non si ferma soltanto al fatto in sé. Abbiamo infatti tentato di porre l’accento sulla qualità dei commenti che tutti abbiamo letto. Da dove possono nascere? “Da una profonda insoddisfazione verso sè stessi, da una profonda repulsione verso se stessi e da una diffusa educazione all’odio e alla rabbia e da un sempre più indiscriminato uso di questi due sentimenti. Da sempre si parla alle pance delle persone e da sempre l’uomo utilizza il transfert come meccanismo psicologico e sociale, ma ultimamente si parla sempre più in modo da attivare odio e rabbia, perché più facili da controllare, da indirizzare, perché richiamano meno attenzione e impegno intellettivo”. Le conseguenze sono quelle sempre più evidenti del continuo e costante imbarbarimento, di una vocazione alla distruzione non soltanto dell’altro ma anche e forse soprattutto di sé. E in questo agire, inevitabilmente, c’è una responsabilità di quella politica che parla alle pance e agli istinti primordiali dell’uomo. E che prima o poi dovrà pagare tutti i danni che ha generato. E’ un problema spesso psicologico e sociale:

Manca l’abitudine a dire la propria, a esternare il proprio reale pensiero nel nome della costante ricerca di consensi, siano essi voti o semplici like di amici. Nella società degli applausi, dello share e dei followers un mi piace diventa una fonte di giudizio più grande dei dieci comandamenti. Pensa a questa vicenda. Abbiamo finito per insultare Silvia Romano o insultare gli odiatori seriali, ponendo lei e l’odio, quindi, come centro del nostro dibattito, ma in verità lei al massimo poteva essere un simbolo o un esempio al tavolo della questione. Si sarebbe dovuto parlare della gestione di un sequestro, del terrorismo, o ancor di più, delle cause che creano determinati squilibri socioeconomici e della diversità di approccio nei confronti di questo disequilibrio che pensano di dare tanto i cooperanti quanto i terroristi o ancora i governi. E a quanta disparità ci sia in questa vicenda. Silvia è allo stesso tempo vittima e sopravvissuta del terrorismo solo per la sua provenienza. Se non fosse stata occidentale e quindi cittadina di uno stato in grado di permettersi un riscatto molto probabilmente non sarebbe stata rapita e, allo stesso tempo, una volta rapita non sarebbe stata liberata. Ma chi lo pensa non lo dice per paura di sembrare razzista e chi è razzista realmente trova altri appigli perché si vergogna di esserlo. Ci fosse uno che ti dice di essere razzista e di credere fortemente in quello che ha appena detto o scritto”.

Silvia Romano

Vigliaccheria, paura del giudizio altrui, il ricorrere al benaltrismo, ai paragoni tra morti e morti, tra categorie e categorie. Mille pregiudizi, mille dubbi, mille maschere. Mille paure. “E i peggiori sono quelli che rispondono sullo stesso piano. Scegliendo come giusto il paradigma dei Vigliacchi ed il loro terreno di scontro”. Che poi, il vero problema è che colpendo Silvia si va ad intaccare – più o meno volontariamente in certi casi – il lavoro e le speranze di tantissimi uomini e donne che hanno scelto la cooperazione, o molto più semplicemente il mettersi al servizio degli altri, come vocazione e come scelta di vita. E che non fanno differenza se per aiutare sia necessario andare in Africa o nel paese vicino. Gli insulti a Silvia sono anche a loro. Ad Andrea. “E’ chiaro che in questo caso c’è un forte coinvolgimento emotivo, facendo un’attività molto simile a quella di Silvia Romano, per una piccola ong e nella stessa nazione e con gli stessi ideali. Gli insulti maggiori però li ho sentiti rivolti anche a me in quanto essere umano”.

E’ il concetto stesso di essere umano a venir meno ogni volta che accadono cose come quelle avvenute al ritorno di Silvia Romano in Italia. E il punto non è ovviamente la ragazza, che non ha colpe. Il punto è usare la ragazza per tifo politico, frustrazioni da sfogare, rigurgiti di perbenismo, ipocrisia, stupidità e benaltrismo che non fanno onore a chi li effettua e rendono spesso paralizzato chi li legge. Il punto è ridurre la storia di Silvia a paradigma per l’intero concetto di cooperazione e di volontariato internazionale. Ed è impossibile, perché quello che è accaduto potrebbe ripetersi in altri Paesi e in altre circostanze. Lo ha detto benissimo Andrea, il nostro è un mondo dove non esistono mezze misure. Per fortuna esistono esseri umani che questo concetto di umanità lo portano avanti ogni giorno. A casa degli altri e a casa loro. E spesso, molto più spesso di quello che immaginiamo, a casa nostra. Solo che agli odiatori non va più bene nemmeno questo, ed è doppiamente deprimente. Perché Andrea, e tutti gli Andrea e le Silvia di questo mondo, dovrebbero essere orgoglio e vanto di un Paese come il nostro.

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