L’occhio di vetro di Duccio Chiarini, presentato al Festival dei Popoli 2020 di Firenze, quest’anno in versione solo digitale a causa dei noti problemi dovuti alla pandemia, è un’opera notevole che riesce a legare vita vissuta – la famiglia di Chiarini è uno scrigno di infinite storie, vedersi anche il pregevole Hit the road nonna – con un capitolo di storia ancora vivo e irrisolto per il paese.
Il maggior valore del documentario risiede nell’ottimo lavoro fatto con i testi recitati in voice off dallo stesso Chiarini, che scorrono sulle immagini di repertorio della guerra e commentano spesso anche le scene riprese dal vivo. E’ infatti soprattutto questo letto di parole che permette la vivida risonanza tra la particolare esperienza familiare del regista e la storia del paese, che arrivano a fondersi, come per un procedimento alchemico, in un tutto unico e armonico. Ecco quindi che l’irriducibilità della fede fascista del nonno del regista, vissuta pure nel silenzio che lui e la moglie avevano mantenuto su quelle vicende, dato che un confronto su quegli eventi drammatici della storia italiana (il fascismo e la repubblica di Salò) con le generazioni più giovani era sempre mancato, si inscrive perfettamente nella più generale situazione del paese riguardo a quegli stessi eventi.
Un documentario emozionante e pieno di sortite buffe
Pensando alle annuali polemiche che accompagnano ogni anno le celebrazioni del 25 aprile, e a come il paese sia sempre stato spaccato in due, Chiarini infatti in un’intervista parla dello sdoganamento del termine guerra civile per descrivere ciò che successe in Italia dal 1943 al 1945, ancora invero difficile da accettare per i più. Il regista e i genitori poi sono una squadra affiatatissima – come ricorda anche lui con ironia nella stessa intervista – che regala momenti emozionanti con coloriture drammatiche e sortite buffe, pescando quindi con efficacia nella tradizione della commedia all’italiana, seppur nell’ambito della spontaneità “rubata” dal documentario.
Il fascino della mansarda piena di cose vecchie e di tracce di memoria, come i diari dei nonni, sono poi elementi di indubbio fascino, per i quali in tanti invidiamo Duccio Chiarini, e che mettono le ali ai piedi al suo documentario. Il risultato di questa sua prova è dunque ottimo, per un regista che aveva già messo in luce il suo talento sia nel documentario Hit the road nonna (2011), prima citato – che era bello ma forse meno di questo in cui tutto sembra veramente girare alla perfezione – sia nei suoi due film di finzione, più in Short Skin- I dolori del giovane Edo (2014) a dire il vero, fresco e originale, che ne L’ospite (2018), che invece era parso flirtare eccessivamente con gli stereotipi di coppia del nostro tempo.