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Cinema

È stata la mano di Dio: archeologia di Paolo Sorrentino

Tempo di lettura: 4 minuti

Presentato in Concorso a Venezia78, È stata la mano di Dio è l’ultimo film di Paolo Sorrentino (su Netflix dal 15 dicembre). Protagonista della vicenda è “Fabietto” Schisa, un giovanissimo napoletano che ama il calcio grazie a Maradona, e la bellezza grazie a una zia forse matta, ma sicuramente splendida. Fabietto non sa cosa fare della sua vita, non ha amici ed è fagocitato dal magnetismo del cinema. Solo un evento terribile lo costringe a fare i conti con sé stesso, e con il suo futuro.

Il silenzio diverso e la chimica dei miracoli

È stata la mano di Dio è un film dolorosissimo. Ispirandosi vagamente ad alcuni eventi autobiografici, Sorrentino offre la sua personale visione della formazione adolescenziale, un momento della vita nel quale tra il dramma e il dolore di ieri e l’avventura febbrile di domani si schiude l’incombenza che tutti gli insicuri trova impreparati: la scelta. Fabietto, come lo chiamano tutti a casa, tace esattamente come fanno molti personaggi sorrentiniani. Eppure il suo silenzio ha un che di peculiare: è estetico ed estatico. Non reticente, colpevole, né omertoso, e neppure imbarazzato. È un silenzio che lo predispone ad assaporare appena incostanti e sparuti sprazzi di bellezza anche nel mezzo di un pesantissimo pranzo meridionale all’insegna della rozzezza. Il suo silenzio lo rende solitario e fragile, ma in grado di afferrare l’ineffabile chimica dei miracoli.

Una scena di E' stata la mano di Dio

E per questo tipo di miracoli Napoli sembra essere proprio la città giusta. San Gennaro può davvero apparire per far restare incinta le donne. Il munaciello può essere davvero nunzio di splendidi avvenimenti. E Maradona può davvero arrivare al Napoli contro ogni previsione, regalando il prodigio calcistico più memorabile degli ultimi 50 anni alla città di Masaniello. Può davvero eliminare l’Inghilterra con un gol irregolare. Il miracolo non solo esiste, ma è tangibile, e può cambiare la vita delle persone in un attimo. Basta solo saperlo notare, aprirsi, accoglierlo; e trovando coraggio, magari, sapersi ascoltare. Non sorprende che Maradona, quindi, possa salvare la vita a Fabietto, sia letteralmente che metaforicamente. Non sorprende nemmeno che il testimone oculare di questo prodigio sia proprio il cinema, unico e solo messaggero di quel miracolo che ogni spettatore, almeno una volta nella vita, ha provato in sala: quello di sognare a occhi aperti. Il cinema non è altro che questo. Qualcuno avrebbe detto che è solo un trucco. Ma come aveva già intuito Fellini, giustamente omaggiato, il cinema è una distrazione. Dalla vita. Perché «La realtà è scadente. La realtà non mi piace più». Quanto è dolorosamente vero.

Il paradosso e il sentimento

È stata la mano di Dio è il film che scardina parte dei comuni assiomi comunemente associati a Paolo Sorrentino. La messinscena, soprattutto, è lievemente meno barocca delle opere precedenti (senza che il barocchismo venga qui associato ad alcunché di negativo: tutt’altro). Eppure… eppure c’è qualcosa che paradossalmente permane come un retrogusto così pesante e amaro, così denso, da essere molto autentico e personale. Come se Sorrentino abbia deciso di auto-demistificarsi, in parte smantellando le consuete sovrastrutture, attenuando le imponenti mimesi plastiche e silenziando in parte i blandi rimandi felliniani – che pure non mancano affatto. Il risultato è un film che pur essendo “meno sorrentiniano”, lo è di più. C’è tutto lo spirito meridionale nella prima parte, esilarante, del film. C’è tutta la commistione tra sacro e profano, tra malavita e sentimento, tra schifo e amore, tra riso e pianto. Tra vita e morte. Tutto portato all’eccesso di un parossismo incandescente anche se decadente. Bisogna averle respirate, certe cose, per comprenderle in maniera viscerale. Ed è questo il ritratto napoletano di Sorrentino: una restituzione tridimensionale di odori, colori e sapori che si fanno tangibili, sensibili in più di un senso. Che nauseano, certo, ma ai quali è impossibile non tornare. Che fanno soffrire terribilmente, ma che non puoi non amare: come i genitori.

Una scena di E' stata la mano di Dio

Ci sono, naturalmente, i sogni e i sentimenti, in È stata la mano di Dio. Filmati con la consueta maestria di sempre e con lo stesso tatto da impressionista, scavati artigianalmente sul volto rapito e silenzioso, un po’ acerbo, di Filippo Scotti, la cui esile figura – a tratti spaurita, a tratti rapita – è la perfetta concrezione di una vita che trema e che ha paura di concludere. Ma che si alimenta nei paradossi e nei sentimenti, gli uni imprescindibili dagli altri. La vita di “Fabietto” ha da diventare quella di Fabio; il passato, con il clamore pacchiano delle feste familiari e delle vie napoletane, va lasciato al ricordo. Il futuro, sempre più solitario e povero di compagnie, è alla fine del binario per Roma. E viene fedelmente ritratto da una macchina da presa che si fa nel corso del film sempre più pudica e delicata. Pronta a rarefarsi, lasciando il giusto spazio ai silenzi.       

Gli effetti della mano di Dio

È stata la mano di Dio è un film che può fare davvero molto male, o che può aiutare tantissimo. Può annientare chi ai miracoli non crede ormai più, o chi non ha la perseveranza di Maradona negli allenamenti. E può invece giovare a chi ha un sogno da inseguire, o una notevole sensibilità nell’arte dell’osservazione. Ma non ci sono insegnamenti da impartire, come del resto non ci sono mai stati nei film di Sorrentino. Battiato avrebbe detto: «Per superare questa noia di vivere, prendi ciò che vuoi dai tuoi giardini sospesi nell’anima». Fabietto l’ha trovato di fronte a uno schermo, che guarda estasiato nonostante i terribili patimenti. A noi non resta che questo (al) momento. Non ci resta che godere del fatto che esistano ancora persone che grazie a dio, tra una chiavata e Maradona, continuino a preferire il secondo. A me non restano che le lacrime, anche se questo, a rigor di termini, non andrebbe scritto in alcuna recensione.        

1 Comment

1 Comment

  1. Giuseppe Piazza

    3 Settembre 2021 at 07:02

    Ottima recensione.

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