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Intervista a Daniele Lamuraglia: 25 anni di teatro

Tempo di lettura: 5 minuti

Quali sono stati i momenti decisivi della tua vita che ti hanno portato a dedicarti al teatro?

Penso che certe scelte in parte siano il frutto di un lento e lungo percorso, in primo luogo l’ambiente nel quale si cresce per arrivare alla maturità; ed in parte siano dovute a episodi ed eventi che imprimono brusche accelerazioni.

In quale ambiente sei cresciuto?

Sono nato in Svizzera, in un paesino in provincia di Ginevra che si chiama Chene Bougeries. È stata la prima città raggiunta dai miei genitori come emigranti in cerca di lavoro: mio padre era originario di Gravina di Puglia e mia madre veniva da Jesi in provincia di Ancona. Si conobbero lì, poi ci trasferimmo a Firenze definitivamente, dove ho sempre vissuto, ma la sensazione di essere uno “straniero” rispetto alle tradizioni e all’identità di una città o di un popolo non mi ha mai abbandonato completamente. 

Questo è anche un tema ricorrente nelle tue opere. Che tipo di educazione ti hanno dato?

Le famiglie dei miei genitori appartenevano ad una religione protestante, dunque sono cresciuto dentro quella morale e con la lettura diretta e quotidiana della Bibbia, frequentando tutte le scuole fino al diploma del Liceo Scientifico nelle istituzioni private di quella chiesa. Una specie di mondo a parte costituito su fondamenta tracciate da Lutero molti secoli prima: un po’ come vivere nel 1500 mentre intorno c’era il XX° secolo.

E come ti sei “ricollegato” al tuo secolo, al tuo tempo?

Quel microcosmo protettivo ha cominciato ad incrinarsi con la scoperta del tumore di mia madre, una malattia culminata con la sua scomparsa nel 1981, ma che è durata 8 lunghi anni nei quali sono entrato quotidianamente in relazione con la questione della morte. A salvarmi dalla paralisi di significati nella quale ero piombato sono stati i libri, soprattutto quelli di letteratura in questa prima fase, un universo che non avevo avuto modo di conoscere, dato il contesto familiare nel quale ero cresciuto. Ricordo il forte impatto dei romanzi di Pavese, Sartre, Camus, letti in solitudine nella mia camera, o per strada, sugli autobus. Dopodiché ogni autore ne richiamava un altro, e non è più finita.

Tutto ancora vissuto in solitudine fin qui. A cosa fu dovuto l’incontro con il mondo che stava fuori da quel microcosmo?

I libri in effetti furono un incontro immaginario con altri che sentivo finalmente amici, che incontravo solo sulle pagine scritte dei loro libri. Fui invece travolto dal mondo circostante mentre facevo l’ultimo anno del liceo, con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. È stato un evento che ha segnato un’intera generazione, della quale ho fatto parte, e per me che vivevo isolato fu come essere travolto da un maremoto. Il mondo della politica mi è arrivato addosso nel momento in cui sembrava crollare. Questo mi ha spinto a cercare di scoprire cosa stava succedendo intorno a me, e decisi di iscrivermi alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze.

Che ruolo ha giocato la formazione universitaria? 

Per me fu fondamentale, e in senso molto diverso dall’idea di ottenere un foglio di carta in vista di un buon lavoro. È stata una scuola di vita, dove ho imparato ad avere un approccio scientifico a quella conoscenza del mondo della quale sentivo l’estrema necessità. Ci ho messo diversi anni a laurearmi, ma anche perché oltre ai libri di testo dei professori andavo a cercarmi e leggermi le opere originali e integrali dei grandi autori che venivano citati. 

In cosa ti sei laureato?

Mi sono laureato nel ramo di Storia, nella materia di Storia dell’America Latina, insegnata dal professor Antonio Annino, un lavoro che mi portò a vivere un mese e mezzo a Città del Messico e durato alcuni anni, e che soprattutto fu il modo per approfondire la storia della cultura occidentale attraverso i suoi autori più importanti, in particolare con lo studio di materie come la sociologia, la filosofia, l’antropologia, l’etnologia e la psicanalisi.

L’incontro con il teatro com’è avvenuto?

È stato il frutto di un incontro casuale. Ero avviato a dedicarmi alla Storia, mi avevano invitato a parlare in alcuni convegni internazionali a Madrid e Barcellona. Poi conobbi il regista Angelo Savelli, ne nacque un’amicizia, per me molto importante, che mi spinse ad interessarmi al teatro. Ho quindi lavorato con lui per la sua compagnia Pupi e Fresedde al Teatro di Rifredi per dieci anni come assistente alla regia e poi come regista per due spettacoli che ebbero molto successo. Sono stati un periodo di intensa formazione, a diretto contatto con artisti e professionisti di questo mestiere, un percorso che capita raramente di poter usufruire.

Dopo hai proseguito per conto tuo creando una tua compagnia che sta per compiere 15 anni di vita.

Sì, con il prezioso bagaglio che avevo acquisito ho preso una mia strada, fondando la compagnia Teatro del Legame nel 2005, che fra pochi giorni compirà 15 anni, e quindi per me 25 anni di teatro. Fra i tanti i momenti importanti ricordo con piacere l’amicizia e la collaborazione che ho avuto con Antonio Tabucchi e con Alessandro Serpieri, il dialogo con Pippo Delbono, i due lavori che ho fatto con Marion D’Amburgo, tutte persone che hanno lasciato un segno profondo nel mio modo di vivere il teatro. Sono anche contento dell’attenzione ricevuta da molti studiosi, esperti ed artisti di ogni parte del mondo, grazie ai libri che negli ultimi anni hanno pubblicato sul mio teatro delle università prestigiose come quella di Warwick, Cambridge e Londra.

Ma in questi anni sono state importanti anche tutte le ore di lavoro condivise con le attrici e gli attori con i quali abbiamo creato gli spettacoli, sia quelli più esperti che quelli che si stavano affacciando a questo mondo, così come con gli scenografi, i musicisti, i costumisti e ognuno dei tecnici coi quali abbiamo ideato le opere di questo teatro.

È un genere di teatro che si vede raramente nei grandi teatri?

Sì è vero, mi è capitato di mettere in scena spettacoli in grandi teatro come il Teatro della Pergola, ma questo genere di teatro contemporaneo ha un suo circuito fatto di piccoli e medi teatri ed un pubblico di appassionati che lo seguono. Seguiamo un destino simile a quello dell’arte contemporanea, in un paese come l’Italia che rimane legato alla tradizione della sua arte classica, rinascimentale e ottocentesca, ancora ferma ad un’idea museale e ripetitiva della cultura, piuttosto che a quella di organismo vivente capace di rinnovarsi in parallelo o in conflitto con la società, per rappresentarne la coscienza critica, la provocazione o lo stimolo.

Quali sono i tuoi prossimi impegni?

Proprio per le caratteristiche di questo genere di teatro, sempre da inventare, faccio progetti a breve scadenza. Stiamo portando in tournée “Il Difettoso”, e preparando uno spettacolo nuovo del quale preferisco ancora non parlare, oltre a continuare con i nostri laboratori che tengo con Daniele Locchi e Costanza Mascilli Migliorini. È poi in preparazione la pubblicazione di un mio altro libro di teatro, una collezione di altre cinque opere curate da Francesca Sensini e Elena Mazzoleni, che uscirà nel 2020, dunque per gli anniversari della mia compagnia e delle mie nozze d’argento col teatro.

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