Omar è il “ragazzo delle pizze”. Ogni sera sfreccia con la sua bicicletta per le vie della Milano bene per consegnare cibo a domicilio. Omar è nato e vive al Barrio, un quartiere dell’estrema periferia della città meneghina, con il padre e la sorella. Non ha amici e, di conseguenza, poca vita sociale. Una sera incontra casualmente Anna, una ragazza alla quale consegna una pizza in modo a dir poco rocambolesco. Lui si invaghisce di lei, lei si invaghisce di lui. Si piacciono e iniziano a frequentarsi. C’è solo una particolarità, in Omar: quando prova delle forti emozioni, diventa invisibile. Lo scopre per caso, quando un giovane del suo quartiere lo rincorre dopo che lo ha visto (sbagliandosi) incendiare una vettura. Un superpotere che a Omar torna molto utile quando insieme ad altri ragazzi del Barrio cerca di scongiurare una serie di violenze perpetrate da dei delinquenti al soldo di un’impresa edile, interessata a speculare sulle abitazioni del quartiere per costruirci nuovi edifici.
Tanto suona sempre il Barrio
All’inizio, quando fu annunciata, c’era un misto di curiosità e scetticismo nei confronti di Zero, la nuova serie italiana targata Netflix disponibile già dal 21 aprile. La storia del giovane che scopre di avere superpoteri non è certa materia nuova nella sfera dell’audiovisivo contemporaneo. Quello che però destava interesse era l’operazione messa in atto da Netflix, che schiera un cast formato principalmente da italiani di seconda generazione. Ecco allora che il tema dell’invisibilità, il potere che è proprio di Omar, diventa subito una metafora sulla condizione esistenziale di chi desidera ardentemente di essere considerato come un cittadino qualsiasi. Di chi ha una voce e vuole cha la si ascolti. Di chi non vuole più essere considerato invisibile (emblematica, in questo senso, una scena dove uno dei protagonisti si trova in questura per ritirare il documento d’identità esclamando “Ma io sono italiano!”). E’ da questi spunti che Antonio Dikele Distefano è partito per scrivere – prima – il romanzo “Non ho mai avuto la mia età” (edito da Mondadori) e – adesso – la serie originale Netflix.
Si capisce già dai primi episodi come agli autori di Zero non interessi tanto calcare la mano sulla parte supereroistica del personaggio di Omar. Lo sguardo è più sociologico e rivolto all’altra sua identità, quella di italiano di seconda generazione che fatica a uscire dal guscio e a farsi notare. Omar sogna di trasferirsi all’estero per cercare di trasformare in lavoro la sua passione di fumettista. Il quartiere dove vive lo imprigiona in una condizione di costante anonimato. Paradossalmente, da quando Omar si accorge di avere il dono dell’invisibilità, comincia ad essere notato di più. E il suo potere diventa fondamentale per difendere il suo amato/odiato quartiere da chi ci vuole mettere le mani sopra. Il quartiere che è l’altro personaggio principale della serie. Un quartiere che vive di perenni contraddizioni, tra disagio sociale e delinquenza ma dove c’è anche posto per la solidarietà reciproca e dove spicca, su tutto, il senso di comunità. Tutti uniti verso una direzione ben precisa: salvare la “nostra” casa.
Zero, tra cinecomics e sguardo sociologico sulla contemporaneità
Lo showrunner di Zero, coadiuvato dal team di sceneggiatori composto da Stefano Voltaggio, Massimo Vavassori, Lisandro Monaco, Carolina Cavalli e dallo stesso Antonio Dikele Distefano, riesce a equilibrare l’aspetto cine-fumettistico (muovendosi tra Lo chiamavano Jeeg Robot – altro film dove il luogo d’ambientazione è parte integrante della storia – e Attack the Block) con quello più marcatamente sociologico. La serie ha l’evidente pregio di essere attuale e di trattare temi universali parlando di noi, cosa che la serialità italiana fatica non poco a fare. La freschezza di Zero è data anche dal suo formato breve (8 episodi da 25 minuti l’uno) e da un cast di giovani attori, alcuni esordienti altri già visti altrove, capaci di bucare lo schermo grazie alla loro semplicità e a delle performance attoriali contenute e mai fuori fuoco. Il tutto condito da una colonna sonora contemporanea che spazia tra rap, trap e brani che vanno per la maggiore al momento (tra cui la nuova di Mahmood e la bellissima Voce di Madame).
Zero, se il successo sarà dalla sua, come gli auguriamo, avrà probabilmente una seconda stagione, visto anche il finale aperto con il quale si conclude il primo ciclo di episodi. Se così non fosse, e sarebbe un gran peccato, Netflix può dirsi soddisfatta di aver cercato di fare un deciso passo avanti non tanto nella ricerca di un nuovo linguaggio seriale quanto nell’obiettivo di mettere al centro di una storia chi fino a ora è restato spesso ai margini. Per non essere mai più invisibili.
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