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Michael Haneke

Cinema

La trilogia della glaciazione di Michael Haneke

Qualche riflessione sulla trilogia della glaciazione, l’esordio cinematografico di Michael Haneke: tra violenze, media e postmodernismo.

Tempo di lettura: 11 minuti

Il cinema di Michael Haneke si è sempre contraddistinto per topoi e strategie discorsive radicali e rigorosissime. Approdato sul grande schermo alla soglia dei cinquant’anni grazie alla trilogia detta “della glaciazione” – definizione sfuggitagli quasi per caso, ma che da allora lo perseguita –, con Il settimo continente (1989), Benny’s video (1992) e 71 frammenti di una cronologia del caso (1994) il regista ha confezionato un trittico che ha turbato critica e pubblico, esibendo una profondità inversamente proporzionale all’apparente freddezza estetica. Le poche righe che seguono sono un tentativo di penetrare al cuore di questa silente dialettica, in picchiata all’interno di quest’ossimoro, che, se da un lato cela e raffredda, dall’altro moltiplica e infuoca questioni e istanze cruciali del mondo contemporaneo.

PRECISO, NON LOCALE: DECOSTRUIRE L’ESSENZIALE

La grammatica di Michael Haneke si costruisce all’insegna di due inderogabili imperativi: parcellizzare e sottrarre. Sebbene le storie siano tratte da fatti realmente accaduti, la fedele ricostruzione giornalistica è l’ultimo dei pensieri del regista. Pochissime sono le volte nelle quali udiamo il nome dei protagonisti, abbiamo notizie frammentarie e incomplete del lavoro che svolgono, praticamente nessun cenno della città dove vivono. Haneke ha sostenuto che il lavoro di un autore differisce da quello del regista: dove il primo narra e disegna sfumature, il secondo – per rendere visibile – è quasi costretto a ridurre, a semplificare. Questa inderogabile differenza metodologica viene tramutata nel principale punto di forza della trilogia, dove la riduzione cessa di essere contingenza produttiva e viene tramutata in imprescindibile dispositivo poetico e narrativo.

Uno degli interni ripresi in Benny's Video
Uno degli interni ripresi in Benny’s Video

Abilissimo (s)montatore di scenografie, Haneke mira a essere preciso, non locale. Il suo è un gioco di sistematica decostruzione metodologica alla luce di una densissima ricomposizione poetica, dove la seconda non può darsi senza la prima. Ogni fotogramma è così “artificioso” e pregno da diventare precisissimo, nella sua universalità. Niente preamboli, establishing shot e dialoghi. Le storie potrebbero svolgersi ovunque, e in questa u-topia sta la loro tremenda, stringentissima, quasi asfissiante concretezza, ripresa chiaramente e impassibilmente tramite la muta ma lapalissiana universalità degli status symbol (l’automobile e gli elettrodomestici de Il settimo continente; i televisori e i monili vari di Benny’s video; i computer di 71 frammenti di una cronologia del caso), del vestiario e persino dei ritmi quotidiani dei protagonisti. È l’Europa. È l’Oggi. È La Famiglia, non una famiglia. Verosimilmente, la stessa del suo pubblico, quella borghesia post-industriale al centro delle analisi post-strutturaliste che hanno messo sotto la lente di ingrandimento la produzione del sapere e i luoghi deputati alle loro rappresentazioni.

LA FINE DELLE GRANDI NARRAZIONI

Il quadro dipinto da Haneke sembra situarsi sulla scia del post-modernismo delineatosi a partire dalle riflessioni di Jean-François Lyotard. Venuti meno i cardini della società occidentale, esaurita la spinta della ricerca di verità, polverizzatasi la possibilità di un sapere progressivo svincolato da logiche mercantili, l’uomo si trova forse di fronte alla fine della Storia e delle “grandi narrazioni”. Non gli è d’aiuto la scienza, nella fattispecie quella oculistica de Il settimo continente, che pur studiando l’occhio nelle sue micro-componenti non riesce a cogliere l’umano disagio che cela lo specchio dell’anima, quel disagio che porta una bambina a fingere la cecità (un topos, questo, riconducibile alla malattia inventata dal figlio di Giuliana ne Il deserto rosso). Non lo guida più la religione, ormai una prosaica enclave nel territorio del mercato sia nel culto (la preghiera che recita la piccola Eva, nel primo capitolo della trilogia: «Caro dio, se tu mi aiuterai, sarò brava e in cielo mi troverai»), sia nella reificazione simbolica alla quale va incontro la croce di Gesù, ridotta a mero gioco come in 71 frammenti di una cronologia del caso.

La croce, ormai un semplice gioco, di 71 frammenti di una cronologia del caso
La croce, ormai un semplice gioco, di 71 frammenti di una cronologia del caso

Non esiste più alcuna narrazione mitico-fondativa, quindi educativa, di conseguenza formativa. Il sapere postmodernista si disincarna, svincolandosi dal supporto fisico dei suoi detentori, e la cultura si fa sempre meno elitaria e sostanziale, e sempre più massificata e reticolare. Oltre i bastioni del post-modernismo stesso, alla deriva nel mare aperto del senso smarrito, gli individui familiari sono come i naufraghi di Géricault: i pochi che ne sono ancora a bordo vivi, sembrano solo prossimi alla fine inevitabile.

TELEVISIONE, VIOLENZA E DIVERTISSEMENT: DIVENTA CIÒ CHE VEDI

Haneke non parla mai di pessimismo, bensì di scetticismo. È uno scetticismo diffuso, il suo, del quale vediamo sempre l’effetto finale, quello più appariscente e ormai giunto all’irreversibile. Nel mondo postmoderno, se di sfiducia generalizzata e di un certo atomismo sociale si può parlare, la questione dello scetticismo risale non solo al sapere, ma anche ai suoi attuali detentori, ormai ridotti a meri simulacri. Gli schermi televisivi, onnipresenti in ogni capitolo della trilogia, rappresentano il compendio perfetto dello Zeigeist postmodernista, dispositivi privilegiati attraverso i quali osservare la fine di un modo di intendere l’Occidente. La critica non è sterile né qualunquista, buonista o superficialmente nostalgica dei tempi che furono. Haneke si limita a immortalare un contenitore sì significativo (sociologicamente) nel suo essere unicum, ma rilevante (“culturalmente”) soprattutto in funzione del contenuto e del suo potere strutturante e performativo nei confronti della società massificata.

La solitudine televisiva: una scena tratta da 71 frammenti di una cronologia del caso
La solitudine televisiva: una scena tratta da 71 frammenti di una cronologia del caso

La tv, nel mare magnum del senso smarrito, finisce per assorbire parecchio del tempo libero dei protagonisti, restituendo a loro e a noi ciò che siamo: ciò che vediamo. E cos’altro vediamo alla tv, se non una lunga sequela di guerre, violenze, ondate xenofobe ed estremismi di varia natura nei notiziari di Benny’s video e 71 frammenti di una cronologia del caso? Cosa vede la famiglia de Il settimo continente, riunita davanti a un concerto televisivo che ha il sapore di macabro diversivo poco prima del drammatico epilogo? Le tempeste d’acciaio della modernità hanno lasciato posto ad una società del benessere, la cui liquidità è perfettamente espressa dallo schermo televisivo che propina massivamente violenza o vacuo divertissement in un rapporto di reciproca implicazione. È in questa scia che la scena d’apertura di Benny’s video, con le immagini dell’uccisione del maiale che Benny osserva ed esibisce compiaciuto all’occorrenza, acquisiscono valore paradigmatico.

Le riprese dell'uccisione del maiale che aprono Benny's video
Le riprese dell’uccisione del maiale che aprono Benny’s video

Nella società post-industriale violenza e vacuità si fondono in un connubio letale, anche se a tratti ironico. Coesistono in immagini viste più che osservate che transitano dalle vie subcoscienti e che, per semplice reiterazione, annichiliscono ogni resistenza emotiva. Quindi, ogni dialettica. Interrogato sulla violenza – topos cardinale della sua filmografia – Haneke si è detto interessato solo alle conseguenze delle azioni, mai alle cause. Ecco perché nessuna razionalità, nessuna logica né motivazione viene suggerita allo spettatore, abbandonato al lavoro ermeneutico. La violenza senza cause, spogliata di ogni rilevanza tragica o drammatica, diventa un fenomeno qualunque, come qualunque sono quelle famiglie che la esperiscono.

La distruzione (dall'interno) del nido familiare in Il settimo continente
La distruzione (dall’interno) del nido familiare in Il settimo continente

Ma c’è di più. La violenza è lo snodo tematico attraverso il quale ogni speranza di razionalità viene neutralizzata, dato che essa nasce, cova e si scatena (d)all’interno delle famiglie (Il settimo continente e Benny’s video) o, allargando il campo, in quel ceto borghese che soffre un non meglio identificato mal di vivere (71 frammenti). Per certi versi, questo male pare congenito ed endemico, e la sua forza è ancor più devastante in ragione del suo manifestarsi in contesti profilmici (gli interni, di razionalità e rigore bressoniani) e psicologici (l’isolamento familiare e individuale ei soggetti) che rovesciano l’assunto cartesiano: (non) cogito, ergo sum.

LO SPIRITO SENZA LA MACCHINA E LA SINTESI IMPOSSIBILE

Il Sapere, le relazioni e le funzioni sociali (tra le quali quella educativa assume un ruolo preminente) poggiano su forze e agenti che, esplicandosi, trovano un proprio equilibrio, una sintesi dialettica. Non è così nelle famiglie di Haneke, dove quasi non c’è dialettica, e non solo in virtù dell’estrema penuria di dialoghi, per lo più lapidari, allucinati e privi di un qualche senso morale (quando non mostruosamente grotteschi). Non funziona così nemmeno per ciò che concerne i singoli individui: rifacendoci alla formulazione dello “spirito nella macchina” di Ryle, è logico pensare che il primo – se mai fosse esistito – ha definitivamente abbandonato la seconda. A mancare sin dall’inizio è quindi la mera possibilità di sintesi, tanto sul macro-piano sociale, che sul microcosmo familiare e individuale. Ogni anelito è ormai smarrito o anestetizzato. L’entropia generale screma ogni sfumatura psicologista, e sfocia nella tirannia dell’immagine nuda e cruda: solo i gesti hanno ancora una chiara efficacia, degna di ripresa.

Una scena tratta da Il settimo continente
Una scena tratta da Il settimo continente

I movimenti dei personaggi diventano così quasi contingenze meccaniche, spogliate di ogni spirito alla stessa stregua del mondo che abitano: ogni possibilità di riscatto è preclusa, ogni spiraglio d’uscita è ostruito, e il gioco che si dipana sullo schermo è tutto a perdere sin dalle stesse, mortifere premesse iniziali, da un immobilismo che tutto avvolge. L’atomismo familiare, e conseguentemente individuale, si traduce nell’isolamento topografico de Il settimo continente e Benny’s video, trasuda dalle traiettorie dei personaggi di 71 frammenti di una cronologia del caso, aggrovigliate solo tardivamente dal futile gioco di un fato impassibile e di un tempo senza importanza. Un tempo che, per questo, si appiattisce e sveste i panni della significatività narrativa per farsi mero strumento di registrazione: tempo cronologico, appunto, registrato e osservato. Ormai, pressoché inutile.

I SENSI DI HANEKE: UN CINEMA TOTALE

Per un senso univoco ed esaustivo che viene meno, sono molteplici i sensi e le indicazioni che vengono dalla messinscena. Non credo di sbagliare tracciando un parallelismo tra il teatro della crudeltà di Antonin Artaud e l’intenzione che muove ogni fotogramma della trilogia: al centro dello spettacolo c’è lo spettatore, e tutti – ma proprio tutti – i mezzi sono leciti per suscitarne la partecipazione. Se nel cinema “tutto fa senso”, questo è ancor più vero nelle opere della glaciazione, le cui forze centrifughe sconfinano in universi non prettamente cinematografici.

I rumori e il ritmo della quotidianità: 71 frammenti di una cronologia del caso
I rumori e il ritmo della quotidianità: 71 frammenti di una cronologia del caso

È proprio Haneke a venire in soccorso del suo pubblico, quando afferma di aver sempre desiderato fare il musicista, e sostenendo che un film è più simile a un’opera musicale che letteraria. Ecco il primo senso di Haneke: la musica, il ritmo. Sono questi gli elementi cardine per carpire il terribile meccanismo de Il settimo continente, un’opera essenzialmente “musicale”. I sette minuti iniziali e finali sono un susseguirsi ritmico di rumori che, se uditi ad occhi chiusi, rendono alla perfezione l’idea del funzionamento degli Schober. Non vengono quasi mai inquadrati in figura intera; non hanno nome; come semi-automi, non vivono, ma fanno cose, e non nell’accezione morettiana. Il microcosmo razionalizzato della loro casa è il teatro in cui la vita (!) è il rumore delle porte che si aprono e si chiudono, quello dello scroscio dell’acqua dal rubinetto, degli spazzolini da denti riposti ritmicamente negli stessi bicchieri, dello stesso sfregamento dei piedi alla ricerca delle stesse ciabatte poste nello stesso identico punto del pavimento vicino al letto, del raccapricciante gorgoglio di qualcuno che soffoca. Immagini e rumori riecheggiano gli uni degli altri, in un connubio molto simile alla musica concreta di Pierre Schaeffer, e che trova nella suite dei Pink Floyd Alan’s Psychedelic Breakfast (Atom Heart Mother, 1970) un omologo esempio.

Il particolare bressoniano e il ritmo dei suoni in Il settimo continente
Il particolare bressoniano e il ritmo dei suoni in Il settimo continente

In una trilogia che acuisce lo spettro del sensibile trascendendo il mero dato visuale, è fondamentale evidenziare anche l’importanza attribuita alle modalità di rappresentazione dei fenomeni. Quella di 71 frammenti di una cronologia del caso è così un’operazione prima di tutto ritmica, dove gli eventi sono significativi tanto quanto la loro concatenazione strutturale. Diventano fondamentali i raccordi a nero che inframmezzano i 71 spezzoni del film, esasperando un espediente già utilizzato ne Il settimo continente. Lancinanti come coltellate, parcellizzano la narrazione in segmenti di durata diseguale, di valore diseguale, di importanza diseguale, così sottolineando l’importanza dell’unicum, del frammento. Ne viene fuori un’estemporaneità sgrammaticata, un tempo postmoderno sbilenco e non teleologico, giustapposizione e registrazione di cose ed eventi, omicidi e giochi da tavolo, discussioni telefoniche e adozioni.

I momenti dell'omicidio in Benny's Video
I momenti dell’omicidio in Benny’s Video

Benny’s video, grammaticalmente più canonico, esplicita una connotazione metatestuale nella scena dell’assassinio della ragazzina. L’omicidio non viene mostrato direttamente dall’occhio della macchina da presa, ma filtrato attraverso uno degli schermi della stanza di Benny collegati alla sua videocamera. A questo primo rimando metatestuale ne corrispondono almeno altri due: da un lato, la scelta di confinare le concitate operazioni dell’uccisione in un fuori campo che è reso “doppio”, giacché né la macchina del regista, né quella di Benny, mettono realmente “in campo” l’accaduto; dall’altro, giocoforza, il fatto che la traccia sonora (le urla della ragazzina) continui imperterrita. In questo triplice gioco di rimandi sensoriali Haneke si prende gioco dell’occhio del pubblico, convinto che il non detto possa avere un effetto ancor peggiore del mostrato. Inoltre, citando le sue parole, egli adempie uno dei suoi più sacri dogmi: la sincerità. Per un regista che ha definito il cinema come «24 bugie al secondo al servizio della verità», l’esibizione metatestuale è il modo migliore per indicare un livello più profondo di autenticità. Non bisogna guardare il dito, ma la luna.

COMPENDIO DI HANEKE IN 3 SCENE

Secondo l’accusa ricorrente, una proiezione di Haneke equivarrebbe ad assistere al nulla assoluto per ore intere, fino alla violenta deflagrazione finale. In realtà, i film della glaciazione rivelano anche in corso d’opera una complessità sorprendente. Citerò a titolo d’esempio solo tre scene, esplicative di un’intera concezione poetica.

La scena dell'allenamento di ping pong di 71 frammenti di una cronologia del caso
La scena dell’allenamento di ping pong di 71 frammenti di una cronologia del caso

In 71 frammenti di una cronologia del caso, Haneke impiega ben tre minuti di macchina fissa a riprendere l’allenamento di ping pong di Max. Minuti estenuanti, in cui appunto “non succede nulla”. Nel richiamare le riflessioni di Deleuze sulla differenza tra immagine-movimento e immagine-tempo, la rilevanza della scena si evince dallo sfondo di tutta la filmografia hanekiana. L’essere post-postmoderno, raggiunta l’efficienza di una macchina, non può, come quest’ultima, che incepparsi senza motivo apparente. Come gli oggetti che ci circondano seguono regole meccaniche ignote ai più, gli uomini di Haneke fanno questo: cedono, si inceppano, forse con la stessa consequenzialità e con lo stesso automatismo di una cosa.

Una scena tratta da Benny's Video: il protagonista si cosparge di sangue della vittima
Una scena tratta da Benny’s Video: il protagonista si cosparge di sangue della vittima

Anche Benny, in Benny’s video, racchiude in un paio di gesti tutta la mostruosità della postmodernità hanekiana, esplicitandola tramite i fluidi. Dopo aver ucciso la ragazzina, Benny tenta maldestramente di asciugare con un panno la pozza di sangue sul pavimento, richiamando il medesimo gesto di qualche scena successiva con il latte erroneamente versato sulla cucina. Stesso gesto meccanico, identico il valore soggettivo dei liquidi, almeno per il ragazzo. Il quale, seduto a telefono dinnanzi a uno specchio, si cosparge di sangue della vittima in una sorta di performance  simile a quelle dell’Azionismo viennese. Alla futilità del suo gesto corrisponde la vera figura tragica del film, rappresentata dalla madre. Sono i suoi orecchini che catalizzano le riflessioni del regista. Nel corso della conversazione con il marito sul da farsi circa il cadavere della ragazzina, ella li indossa fino al momento in cui non si profila la più raccapricciante delle opzioni. Sgomenta, la madre sceglie di togliere gli orecchini alla terrificante proposta del marito, come per spogliarsi della colpa dell’intera classe sociale che rappresenta. Tornerà a indossarli poco dopo, quando, impotente e rassegnata (quindi colpevole) avrà deciso di diventare correa. La presa di coscienza e la razionalità sono state un baluginio, quasi un errore, prontamente occultato dalla ragion familiare.

La "scena impossibile" de Il settimo continente
La “scena impossibile” de Il settimo continente

A chiudere la riflessione sulla trilogia è una scena tratta da Il settimo continente, che mostra tutta l’enigmatica e terribile ambiguità del cinema di Haneke attraverso una “scena impossibile”. Si tratta del cartellone pubblicitario che nei primi fotogrammi del film ritrae un’assolata spiaggia australiana. Nelle riprese successive quell’immagine statica diviene animata, e si può notare come le onde provengano dal lato sbagliato, ossia dal punto del paesaggio dove sono situate le montagne. Tentare un percorso ermeneutico, in questo caso, sarebbe non solo inutile, ma infruttuoso. Lo stesso Haneke ha sempre ribadito di voler lasciare aperte delle piccole porte verso l’ambiguità, l’oltre, forse verso la trascendenza. Che l’immagine sia sintomo – nella sua impossibilità ontologica – di una morte prossima? O, forse, di una liberazione? La razionalità non aiuta, la logica cede il passo all’estasi,  e quella della famiglia Schober potrebbe paradossalmente essere una parabola liberatoria. Seduto tra le macerie della post-postmodernità, forse l’uomo non ha estinto il desiderio di una spiritualità. Haneke sa benissimo quale sia la chiave di lettura giusta per i personaggi che ha creato, ma non intende suggerircela, ci chiede di cecarla ancora e ancora. Dopotutto, siamo noi i suoi oggetti di studio.

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