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The Dark and the Wicked presentato al Torino Film Festival

Cinema

Torino Film Festival 2020: cosa abbiamo visto finora

Al Festival di Torino abbiamo visto, finora, 3 film: “The Dark and the Wicked”, “Vera de Verdad” e “Michey on the road”.

Tempo di lettura: 6 minuti

L’edizione numero 38 del Torino Film Festival, uno dei festival più amati dai cinefili dell’annata cinematografica, si presenta per la prima volta in una nuova veste, quella dello streaming online (non c’è neanche il bisogno che vi spieghiamo il perché).

In quest’articolo vi raccontiamo quello che abbiamo visto fino a qui, spaziando tra le varie sezioni del festival, dal Concorso di Torino38 all’indipendente Le stanze di Rol.

“The Dark and the Wicked” di Bryan Bertino (Le stanze di Rol)

di Daniele Marseglia

Il primo titolo presentato nella sezione Le stanze di Rol è un horror. Diretto da Bryan Bertino, il regista dell’ottimo The Strangers, il film racconta la storia di due fratelli che tornano nella fattoria texana dei loro genitori. A condurli fin lì sono le condizioni in cui verte il padre, ormai allettato e sul punto di morte. La loro madre ha bisogno d’aiuto e di assistenza, ma si è ben vista dal coinvolgere i due figli in prima persona (“She told you not to come”, recita il claim del film). C’è qualcos’altro, però, oltre alle condizioni del marito, che sta sconvolgendo la donna. Di cosa si tratta? I due fratelli, nel corso di una settimana, per salvare quel che resta della loro famiglia, dovranno fare i conti con apparizioni inspiegabili, rumori sinistri, scricchioli e visioni inquietanti.

The Dark and the Wicked
Una scena di The Dark and the Wicked (2020)

Arrivato al suo ottavo film in poco più di dieci anni di carriera, Bryan Bertino con The Dark and the Wicked confeziona un horror dall’atmosfera rarefatta. Un horror che vive di attese e che non cerca – anzi, lo evita chiaramente – il colpo ad effetto.
Il Male che arriva a bussare alle porte di questa famiglia texana porta i due fratelli a fare i conti con una vita (la loro) vissuta forse un po’ troppo egoisticamente. Adesso, con un padre morente per loro arriva la prova più difficile: resistere al male.

Il film di Bertino assume una sua precisa identità fin dalla sua ouverture. Non ricorre a facili trucchetti come citazioni più o meno volontarie né tantomeno cerca l’appiglio di tematiche di tipo sociale o politico (un esempio, di questi ultimi anni, sono gli horror della Blumhouse). Vive e cammina sulle proprie gambe, dall’inizio alla fine. Non risparmia allo spettatore qualche salto sulla sedia e anche delle sobrie scene di splatter. Bertino sa come si crea tensione, sa come far crescere l’attesa, sa come stupire con un finale inaspettato. Sa – nella migliore tradizione di certo cinema indipendente americano – togliere, e non accumulare. Ridurre tutto all’essenziale, eliminare gli inutili orpelli. Insomma, apparecchiare la tavola con quello che ha a disposizione servendo piatti gustosi e di qualità.
Il film, poi, fa davvero paura, cosa che per un horror è alquanto basilare.

“Vera de verdad” di Beniamino Catena (Fuori Concorso)

di Vito Piazza

Con Vera de verdad, Beniamino Catena arriva al lungometraggio dopo una solida esperienza televisiva (Squadra antimafia – Palermo oggi; Rosy Abate: la serie). Al festival di Torino racconta una storia ibrida, capace di mescolare topoi da thriller fantascientifico con quelli del dramma sentimentale. Protagonista della storia è Vera, una ragazzina di dieci anni che un giorno scompare misteriosamente senza lasciare traccia. Altrettanto inspiegabilmente, ella riappare dopo qualche anno in un corpo di donna ormai adulta, costringendo i suoi genitori a confrontarsi con il dolore di un insondabile mistero.

Vera de verdad
Una scena di Vera de verdad (2020)

Vera de verdad è un’opera imperniata su un complesso gioco di dualismi, non sempre, però, felicemente conciliati. Appassionato di fantascienza, Catena si spinge fino ai limiti dell’umana comprensione con una storia tessuta da ignoti e invisibili legami metafisici, una storia che per questo motivo la ragione rifiuta. La tensione che polarizza fede e ragione trova nel campo sentimentale un inevitabile terreno d’intersezione, dove la madre di Vera (Caprioli) finisce per assumere il ruolo di vero e proprio ago della bilancia filmico. Ciò che la scienza (le) spiega a posteriori è una blanda, quasi superflua conferma di una ragione sentimentale che la donna/la madre già conoscono a priori. Se di spiritualità si può discutere, si tratta di una trascendenza del tutto laica. O, di converso, se di materialità si può parlare, è di quella finissima di cui sono fatte le stelle che collidono, generando effetti siderali (al momento) appena tangibili.

Il gioco astrale e i salti spazio-temporali, declinati con un avvincente montaggio parallelo che scandisce la prima parte di Vera de verdad, si alternano con riprese di stile iperrealistico, che lasciano ampio spazio a droni e riprese da mobile. Duale anche in questo, l’opera di Catena, che nella sua resa estetica si prende tutto il tempo necessario per regalare scorci paesaggistici di assoluto effetto tra Liguria e Cile. E che fanno di questo film un’opera esteticamente godibilissima, sebbene – a tratti – narrativamente un po’ claudicante.

“Mickey on the road” di Mian Mian Lu (Torino 38)

di Martina Morìn

Mian Mian Lu è incaricata di rappresentare Taiwan in questa edizione del Torino Film Festival, portando in scena uno pseudo teen-drama che punta lo zoom su due amiche taiwanesi, Mickey e Gin Gin. La madre di Mickey è diventata un’alcolizzata dopo che il marito l’ha lasciata, e sulla scia di questo abbandono Mickey reagisce mascolinizzandosi, portando i capelli corti, vestendo con camicioni estremamente larghi e profondendo tutte le sue energie nel tentativo di potersi unire alla squadra maschile di arti marziali. Gin Gin lavora come go-go dancer, sogna di diventare una moglie-trofeo e, al contrario di Mickey, ha un’attenzione meticolosa per lo stile e la cura del corpo. Una coincidenza forzatamente fortuita piazza il fidanzato di Gin Gin ed il padre di Mickey entrambi a Guangzhou (Canton), spingendole ad intraprendere un viaggio che, almeno sulla carta, era stato pensato sicuramente come purificatorio ma che arriva allo spettatore come una semplice gita fuori porta.

In un epoca in cui il tema della dualità va per la maggiore, Mian Mian Lu decide di non arrischiarsi troppo per il suo esordio alla regia e si attiene alle regole del gioco. La contrapposizione è il leitmotiv dell’intero film: Mickey e Gin Gin sono espressione di una società giovanile che si stanca facilmente ad adattarsi ai costrutti della loro società, entrambe sopra le righe ma ognuna si dissocia a modo proprio, divergenti e, forse proprio per questo, potrebbe risultare un duo ben riuscito. E’ implicito che il desiderio della regista sia soprattutto quello di mettere in risalto quella spinosa antitesi tra Taiwan e Guangzhou, tra la vita insulare e la metropoli urbana, tra la ristrettezza economica ed il lusso da infarto, ma anche in questo caso il tentativo sfocia in un nulla di fatto, facendo un rapido accenno ai siti di Facebook e Google censurati e alla differenza di accento, subito percepita da chi sente parlare le due amiche. Si sussegue una serie di scene di stampo grottesco e onirico, spesso anche sconnesse le une dalle altre, cosa che, invece di stimolare la fantasia dello spettatore, lo conduce ripetutamente alla distrazione.

Mickey on the road
Gin Gin e Mickey durante il loro viaggio a Guangzhou

Tecnicamente Mickey on the road rientrerebbe nella categoria dei racconti cinematografici ‘on the road’, ma oltre a mancare l’ingrediente principale, ovvero quello del viaggio in sé (frammentato e breve) è assente soprattutto l’impronta spirituale del pellegrinaggio. Di certo nessuno si aspettava la carica emotiva di Thelma e Louise, ma nemmeno una riproduzione lapidaria e macchinale. Il film si sviluppa seguendo una schematicità banalissima, che rifiuta talmente tanto gli intrecci narrativi che ha bisogno che Gin Gin trovi il fidanzato (e lo lasci) prima che Mickey inizi la ricerca di suo padre (che pugnala) per poi ritornare alla monotonia della vita di sempre senza però che ci sia presentato il cambiamento delle due ragazze a seguito di scelte che per i personaggi sono risultate di forte impatto emotivo (per noi un po’ meno).

Mian Mian Lu perde una buonissima occasione per uscire dalle righe lei in primis come ha fatto fare alle sue protagoniste, potendo disporre anche della fotografia di Christopher Doyle. Eppure, anche con quest’asso nella manica, il potenziale del film si dissolve rapidamente: una fotografia, quella di Mickey on the road, che sa solo giocare timidamente con i colori stroboscopici dei club, dei templi e dei luna park, lontanissima da quella intensa ed intima di In the Mood for Love di Wong Kar-wai. Segno, questo, che Mian Mian Lu non ha mai forse avuto davvero l’intenzione di sviscerare e scandagliare dal profondo i suoi personaggi.

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