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Anniversari

Taxi Driver, un viaggio al termine della notte

Compie 45 anni il capolavoro di Martin Scorsese scritto da Paul Schrader con protagonisti Robert De Niro e una giovanissima Jodie Foster.

Tempo di lettura: 10 minuti

Sarebbe interessante chiedere al fumettista Alan Moore quanto lo abbiano ispirato il film Taxi Driver (1975) di Martin Scorsese e il suo protagonista Travis Bickle (Robert De Niro) per le caratterizzazioni della plumbea New York che puzza di fornicazione e coscienze sporche, e per quella dell’antieroe Rorschach nella sua celebre graphic novel Watchmen. La sensazione, infatti, è che il debito nei confronti del film sia enorme. Le elucubrazioni bigotte del blue collar Travis sul disfacimento di una società peccaminosa non sono poi così distanti da quelle analoghe del vigilante mascherato.

Travis Bickle in Taxi Driver
Travis Bickle in Taxi Driver

In fondo, non ci sarebbe nulla di strano. Taxi Driver è ancora oggi, a 45 anni dalla sua uscita nei cinema americani, un film che non solo mantiene inalterati la sua forza visionaria e il suo incedere disincantato, ma continua ad influenzare il cinema e gli altri media a lui prossimi. Al capolavoro scorsesiano ha guardato, ad esempio, Spike Lee quando ha realizzato La 25a ora (2002), una sorta di aggiornamento ai tempi. Mentre al personaggio di Travis sono in parte ispirati i protagonisti di Drive (2011) di Nicolas Winding Refn e di Joker (2019) di Todd Phillips. Prove inconfutabili circa il radicamento del film nella cultura di massa.

America, 1975: un impero alla fine della decadenza

Taxi Driver è un instant movie che racconta una storia ambientata alla metà degli anni ’70. Una fase storica non priva di significati per gli Stati Uniti. Gli anni ’60 erano stati la decade della perdita dell’innocenza, colpita a morte prima a Dallas, nel 1963 (John F. Kennedy), e poi una seconda e una terza nel 1968: a Memphis (Martin Luther King) e a Los Angeles (Robert Kennedy). Contemporaneamente, lo scoppio della Guerra del Vietnam – iniziata ufficialmente per gli Usa nel 1962 e protrattasi proprio fino al maggio del ’75 – segnò profondamente l’opinione pubblica americana. Per la prima volta nella storia, le immagini dei combattimenti venivano trasmesse – quasi in tempo reale – dalle tv nazionali, dislocando il conflitto all’interno dei confini americani, oltretutto già teatro degli scontri conseguenti alla lotta per i diritti civili.

Anche una volta conclusa la guerra, il Vietnam rimase una ferita difficile da rimarginare. La drammatica esperienza continuò a persistere nell’immagine di una generazione mandata la macello. Il cinema fu tra i primi recettori dell’insofferenza nei confronti del conflitto. A dire il vero, negli anni ’60 Hollywood partecipò alla campagna bellica in qualità di alleato, producendo pellicole anticomuniste come Berretti verdi (1968) di John Wayne. Fu a partire dai ’70 che l’industria cinematografica cominciò ad osservarla sistematicamente in modo critico.

Taxi Driver
Una scena di Taxi Driver

Alcuni film trattarono il tema direttamente come Il cacciatore (1978) di Michael Cimino, altri invece ne fecero riferimento in maniera indiretta come nel caso di Taxi Driver: un’opera, data la sua complessità, non etichettabile esclusivamente come un “Nam Movie”. D’altronde non è probabilmente un caso che ogniqualvolta interpellato a proposito del film, lo sceneggiatore Paul Schrader ne abbia sempre rivendicato in primis la derivazione letteraria: citando Lo straniero di Albert Camus e La nausea di Jean-Paul Sartre. Eppure, di riferimenti al Vietnam – spesso velati – all’interno del film ce ne sono. All’inizio è lo stesso Travis a confessare al proprio datore di lavoro di essere stato congedato dai marines due anni prima, mentre durante il corso del racconto altri elementi richiamano al vissuto del protagonista: la fascinazione per le armi da fuoco, l’ossessione per la disciplina, il taglio da mohawk sfoggiato nel finale che tradisce il suo coinvolgimento con le unità militari speciali impegnate nel conflitto.

La città nuda: il lato oscuro di New York

Alla metà degli anni ’70 l’America è una nazione allo sbando, ed è incarnata nel film di Scorsese dalla città di New York: specchio delle inquietudini del paese. Una metropoli che in Taxi Driver è al contempo spazio fisico, mentale e personaggio aggiunto alla narrazione. La Grande Mela nel 1975 è sull’orlo della bancarotta, poi evitata grazie a un prestito federale. È uno spazio urbano dove le discrepanze sociali sono sempre più accentuate e la criminalità dilaga. Il film ci mostra una città in disfacimento: i fumi prodotti dal vapore acqueo fuoriescono dai tombini avvolgendo le strade di un alone spettrale; un’anonima massa di passanti-automi percorre le vie cittadine; le macabre luci dei neon si riflettono sul sudicio asfalto bagnato.

Taxi Driver
Una scena di Taxi Driver

La New York descritta in Taxi Driver non ha alcun tipo di appeal. Le sue notti si popolano di ladri, assassini, papponi e puttane. È un luogo di perdizione – oscuro, mortifero, lussurioso – per certi versi non dissimile rispetto alla Las Vegas mostrata vent’anni dopo dallo stesso regista in Casinò (1995).  Il carattere perturbante della città è messo ancora più in evidenza dal fatto che spesso lo spazio urbano è filtrato attraverso lo sguardo di Travis. New York appare al protagonista estranea al tal punto da non riuscire a rintracciare differenze tra i quartieri che la compongono: «Per me sono tutti uguali», dice ai colleghi motivando la scelta di lavorare in ogni zona della città, dalla più rinomata alla più degradata.

Una scena di Taxi Driver

La città assume le fattezze di un leviatano che divora chiunque decida di oltrepassarne i confini, compreso Travis. Il tassista si sente attratto morbosamente dalla metropoli, ma da essa viene costantemente respinto. New York diviene per lui una specie di limbo. È travolto dalle sue luci, dai suoi rumori, dai suoi odori, dalla fauna che la popola. Ma riesce anche ad intravederne il degrado. Nonostante tutto accetterebbe comunque di farne parte, pur di normalizzare la sua esistenza, di sentirsi accettato dalla società. Ma per lui sembra non esserci speranza. Allora non c’è altro da fare che sperare nell’avvento di un diluvio che ripulisca le strade da tutto il lerciume umano che vi è depositato sopra. Sennò l’unica soluzione è quella di compiere in prima persona un gesto estremo: buttare tutto nello sciacquone e tirare l’acqua. È quello che Travis si troverà “costretto” a fare.

Ritornando a casa

Il protagonista di Taxi Driver è chiaramente un personaggio borderline. Travis ha 26 anni; è nato dunque nel secondo dopoguerra. Ha vissuto l’età dell’oro del Sogno Americano (i ’50), e ha conosciuto la maturità durante i complessi ’60, maturando idee conservatrici. Si è arruolato in Vietnam convinto che servire il paese fosse la cosa giusta da fare, salvo poi essersi ritrovato di fronte a quell’orrore di cui qualche anno dopo, sempre al cinema, parlerà il generale Kurtz di Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Una volta tornato in patria, l’integrazione con la vecchia/nuova realtà diviene un miraggio. Bighellona per le strade desolate della metropoli. La macchina da presa circoscrive il personaggio, estraniandolo dall’ambiente che lo circonda: tramite un teleobiettivo che lo rende l’unico elemento a fuoco in scena, oppure attraverso un movimento di macchina che ne mette in risalto il primo piano. In un modo o nell’altro, Travis è sempre ai margini anche quando è al centro dell’inquadratura.

L'isolamento di Travis Bickle in Taxi Driver
L’isolamento di Travis Bickle in Taxi Driver

La sua esistenza è monotona. Di notte guida i taxi, di giorno si reca nei cinema a luci rosse; non perché attratto dai film porno, ma perché (banalmente) lo fanno tutti. Ogni suo gesto è un tentativo di “conformarsi” alla massa. Ha bisogna di normalità, oltre che di instaurare rapporti autentici con gli altri: «La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita», annota sul proprio diario. La sua massima aspirazione è quella di ricominciare a vivere. Ma è convinto che il mondo esterno glielo impedisca. Eppure intravede una possibilità di riscatto nell’elegante e diafana Betsy (Cybill Shepherd): una giovane donna impegnata in prima linea nella campagna presidenziale del senatore John Palantine (Leonard Harris).

Taxi Driver
Robert De Niro e Cybill Shepherd (Betsy) in Taxi Driver

Travis la osserva dapprima da lontano, protetto dall’abitacolo del suo taxi. Poi prende coraggio: prima un caffè e poi una serata al cinema. Al secondo appuntamento, però, la componente psicolabile di Travis deflagra in un sol colpo. Anziché portare Betsy a vedere un film romantico, il giovane propende per un film pornografico. Quando lei, indispettita, cerca di andarsene, l’atteggiamento di Travis – fino a quel momento galante e premuroso – muta. Il sorriso sornione lascia spazio a uno sguardo arcigno; il giovane timido e un po’ complessato si trasforma in un uomo rancoroso e violento. L’abbandono di Betsy segna un turning point narrativo. «Pensavo fossi diversa, invece sei come tutti gli altri», grida Travis alla giovane dopo aver fatto irruzione minacciosamente negli uffici elettorali. Ora, per Travis, non c’è davvero più motivo per non agire.

Travis, “a walkin’ contraddiction”

Se Betsy era l’ultima occasione per Travis di riconquistare l’agognata normalità, la sua uscita di scena matura la certezza, nel protagonista, che è necessario compiere un atto di forza per cambiare il mondo. Travis si concentra così nuovamente sulla città e il suo degrado, oltre che sulla propria condizione disagiata. E trova pure un colpevole per tutto ciò che lo affligge: il senatore Palantine. Non in quanto soggetto politico, ma in qualità di rappresentate di una generazione di governanti che ha contribuito alla degenerazione del paese da molteplici punti di vista: morale, politico, sociale, sessuale.

Dismessi i panni del reduce, Travis veste i panni del giustiziere chiamato a redimere il mondo dai peccati che lo affliggono. La sua figura assume così connotati cristologici (un leitmotiv nel cinema scorsesiano). Si vuole immolare, ma non prima di aver fatto piazza pulita. Nella seconda parte del film Travis diviene un personaggio – se possibile – ancora più sfaccettato. Portato inizialmente ad identificarsi con lui, lo spettatore percepisce l’emergere di una frattura insanabile con il personaggio. Le sue profonde contraddizioni si manifestano inequivocabilmente. È la stessa Betsy ad intravederle in tempi non sospetti, confessando a Travis di ricordargli alcuni versi della canzone di Kris Kristofferson The Pilgrim – Chapter 33: «È un profeta, è uno spacciatore/È un pellegrino e un predicatore». 

Taxi Driver
Jodie Foster (Iris) e Robert De Niro in Taxi Driver

Così, il pacato tassista si trasforma in una macchina da guerra. Non la fa in maniera eclatante come il Rambo di Sylvester Stallone, ma in modo più subdolo: compra cinque pistole; si sottopone a sedute di allenamento fisico nella sua misera abitazione; si reca al poligono a sparare; partecipa ai comizi di Palantine per studiare la disposizione delle sue guardie del corpo; scrive ai genitori rassicurandoli sulla sua salute e mentendo loro circa la sua occupazione (dice di far parte della sicurezza nazionale); brucia i fiori mandati a Betsy per cercare di risanare il rapporto e che lei puntualmente ha rispedito al mittente, troncando con il passato. Ogni suo gesto è parte di un cerimoniale purificatore che prelude al gesto estremo e (dal suo punto di vista) salvifico che deve compiere. Le cose, però, non vanno come previsto. L’attentato fallisce, ma forse non tutto è perduto. Se ormai è assodato che il mondo non può essere cambiato, allora tanto vale salvare il salvabile: in questo caso la giovane prostituta Iris (Jodie Foster).

Un neo-noir o un western contemporaneo?

Catalogare un film come Taxi Driver non è semplice. Vi sono impulsi estetici al suo interno non riconducibili ad un unico genere. L’opera di Scorsese è un pastiche che calamita suggestioni cinematografiche divergenti. Sicuramente possiamo definire il film un neo-noir. Pensiamo all’ambientazione notturna, all’instabilità che emerge da ogni inquadratura, alla città che diviene – come detto – proiezione dei traumi taciuti del protagonista, alla connotazione fantasmatica della figura di Travis (per giunta nottambulo). E ancora, all’uso simbolico delle superfici riflettenti: lo specchio davanti al quale Travis inscena un surreale dialogo con il suo “doppio” («You talkin’ to me?»), il parabrezza del taxi che riflette le luci della città, la vetrata che separa il protagonista da Betsy, e quindi anche dall’agognata normalità.

Taxi Driver
Una scena di Taxi Driver

La dimensione perturbante, tipica del noir, è esplicitata fin dalla prima inquadratura – un taxi fende i fumi della città – su cui scorrono i titoli di testa, punteggiata dalla partitura per nulla rassicurante di Bernard Hermman (al suo ultimo film). Senza contare che il film è stato scritto da Paul Schrader, autore qualche anno prima di un approfondimento critico sul genere apparso su «Film Comment» (Notes on film noir), e successivamente autore del remake (1982) de Il bacio della pantera (1942) di Jacques Tourner. Ma Taxi Driver dialoga anche con un altro genere: il western. Lo stesso Scorsese ha paragonato Travis al protagonista di Sentieri Selvaggi (1956) di John Ford, interpretato da John Wayne: entrambi sono chiamati a liberare una fanciulla prigioniera. Ma i legami con il genere non si esauriscono in questo parallelismo. Innanzitutto nel film di Scorsese troviamo un aggiornamento della figura del pistolero solitario che giunge in una città di frontiera cercando di riportare l’ordine. Ma ritroviamo ritroviamo anche l’archetipo del duello finale.

Deciso a salvare Iris, Travis uccide prima il magnaccia Spot (Harvey Keitel), poi un suo scagnozzo, e infine un cliente della giovane prostituta. È una sequenza orrorifica. Fiotti di sangue color rosso acceso imbrattano i muri; e Scorsese si sofferma su macabri particolari: la mano di una vittima che esplode sotto i colpi della 44 Magnum. Un finale disperato e sanguinolento che per certi versi ricorda quello de Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckimpah, ma senza lo stesso mortuario fatalismo. Anche perché a seguito della sparatoria Travis viene trasformato in eroe dell’opinione pubblica. L’atto violento viene ricondotto nell’alveo della normalità: i giornali lo celebrano, i genitori di Iris lo ringraziano, e persino Betsy si riavvicina. Ma è davvero tutto oro quello che luccica?

Taxi Driver
Harvey Keitel (Spot) e Robert De Niro in Taxi Driver

Come in ogni western che si rispetti, il gesto di Travis sembra aver ripristinato l’ordine costituito. Ma è chiaramente solo apparenza. Allora, ecco che il finale del film assume un’altra dimensione, decisamente più tragica: Travis è l’unico eroe possibile per gli Stati Uniti della metà degli anni ’70, una società che si è assuefatta alla violenza a tal punto da eleggere a proprio paladino un soggetto emotivamente instabile che ha saputo reagire alle ingiustizie (sociali, ma non solo) con un atto estremo. Travis viene così accettato dalla società solo nel momento in cui si conforma intimamente a questa. Diviene anch’egli «freddo ed insensibile», aggettivi che in precedenza aveva riservato a Betsy. Salva Iris, eppure durante la sparatoria l’indifferenza che testimonia nei confronti della giovane (scioccata dall’accaduto) tradiscono il carattere strumentale della sua missione. Salvare Iris è solo un pretesto per far finalmente deflagrare la rabbia e la frustrazione.

Per tutto il film estraneo al mondo che lo circonda, alla fine Travis ne diviene emblema. Dopo tutto, come ha detto Paul Schrader: «Il problema di Travis, è lo stesso degli eroi esistenziali: perché esisto? Ma Travis non capisce che questo è il suo problema, così lo focalizza altrove: e io penso che ciò sia un segno dell’immaturità e dell’ingenuità “giovanile” del nostro paese (…). L’uomo che sente giunta l’ora di morire esce fuori e ammazza gli altri invece di uccidere se stesso». Se è triste il paese che ha bisogno di eroi, lo è anche quello che ne erige di ambigui.

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