Concrete Cowboy è il titolo del lungometraggio d’esordio di Ricky Staub, disponibile su Netflix dal 2 aprile. Adattamento del romanzo del 2011 Ghetto Cowboy, firmato da Greg Neri, l’opera con protagonisti Idris Elba e Caleb McLaughlin presentata al Festival di Toronto nel 2020 ci porta nei sobborghi di Filadelfia, dove alcune comunità nere vivono ai margini della società – e talvolta della legalità – gestendo delle scuderie cittadine.
La superficie: dramma familiare e romanzo di formazione
Il meccanismo narrativo portante di Concrete Cowboy ha una chiara ascendenza negli stilemi del romanzo di formazione. La storia gravita per lo più intorno al personaggio di Cole, ragazzino con problemi comportamentali costretto dalla madre a trascorrere qualche tempo col padre Harp, che di lui si è sempre occupato poco o nulla. È in questa faticosa convivenza che il film si innesta, per mostrare una maturazione – una formazione, appunto – che corre su due binari interdipendenti. Da un lato il ragazzino, che deve imparare a farsi uomo. Dall’altro l’uomo, che deve imparare ad adempiere ai suoi doveri nei confronti del figlio. Il meccanismo di prova/errore coinvolge i due in egual misura, lasciando trasparire l’equidistanza emotiva della regia di Staub. Si intuisce già da subito che la ricerca dell’equilibrio è crocevia imprescindibile, tanto dei personaggi quanto del film. Che, con tono spesso un po’ troppo monocorde e compassato, snocciola fatti e misfatti in una sequela piatta e talvolta prevedibile, senza alcuna impennata stilistica o emotiva.

Nella (scialba) formazione reciproca di padre e figlio, la questione familiare assume molto presto un peso sempre meno determinante, svelandosi nella sua pretestuosa natura di spunto estemporaneo. Concrete Cowboy, quindi, si limita a prendere le mosse dai pochissimi, centellinati elementi utili a tratteggiare (male) Cole e la sua sfera emotiva/familiare. Elementi, questi, ai quali si accenna poco e male. E che tornano nel finale quasi come un coup de théâtre ormai, francamente, innecessario. Si tratta di scelte con ogni probabilità intenzionali, volte a suggerire che il vero cuore del film batte altrove. Famiglia disfunzionale o meno, non è questo il punto centrale di Concrete Cowboy. Che infatti si rivela molto più centrato, puntuale nell’affresco di quel mondo di confine popolato da cowboy urbani.
La doppia segregazione della famiglia allargata
È nella descrizione della subcultura dei cowboy neri di Filadelfia che Concrete Cowboy riesce a cogliere maggiormente nel segno. Cowboy. Neri. È in quest’intersezione che l’opera di Staub offre il ritratto di una segregazione/separazione che è dunque rafforzata, aggravata. L’essere neri, e per di più cowboy, costituisce un doppio stigma di non facile soluzione. Così la rinomata Fletcher Street di Filadelfia – collocata, a dire il vero, in una zona piuttosto centrale della città – non è più un sobborgo geografico, ma una periferia emotiva e psicologica, che solo alla fine diventa sociale. Si tratta a tutti gli effetti di una monade, di un’enclave strutturata secondo un proprio specifico codice etico. L’attentissima cura riservata ai cavalli dai gestori delle stalle urbane assume una duplice valenza. È, da un lato, una via d’uscita da un mondo che confina con la malavita. Dall’altro, è anche una delle vie di permanenza “nel mondo”, attorno al quale la comunità, dopotutto, non può che ruotare per non dissolversi. In quest’ambivalenza, che riflette le zone di confine filmiche, delinquenza e onestà, cura e degrado, legge formale e informale stanno fianco a fianco, senza nette o manichee distinzioni. C’è chi sceglie una fazione e chi ne sceglie un’altra, ma l’unico modo di (soprav)vivere in tale marginalità pare essere l’adattamento.

L’enclave dei cowboys neri è – e diventa – l’unica famiglia possibile, all’interno della quale il giovane Cole può finalmente trovare una dimensione educativa. Non più familiare, ma comunitaria. Nonostante il mondo si allontani sempre di più dall’etos del cowboy, da una vita moderatamente selvaggia e libera e da quel senso comunitario, i protagonisti si fanno superstiti. Reduci da quella battaglia civilizzatrice che irreggimenta, disciplina, razionalizza spazi e palazzi, mentre nel frattempo perde autentici vincoli sociali e familiari. Solo in questa “battaglia urbanistica” combattuta a suon di espropri l’essere nero assume una nuova urgenza e un nuovo significato. Per Cole, e per quel che resta della sua famiglia biologica, il nome è già tutto. Come afferma Harp, il riferimento è all’unico nero che, pur cresciuto senza padre, è riuscito a combinare qualcosa di buono: John Coltrane.
Su tempi, ridondanze e rimpianti
I quasi centoventi minuti di Concrete Cowboy scorrono con una certa pesantezza, e la prova convincente di Caleb McLaughlin, assai più di quella del compassato Idris Elba, non solleva di molto le sorti del film. Il quale sconta parecchi tempi morti, oltre che una complessiva e scolastica prevedibilità e indolenza. Su tutte, la sotto-trama che vede Cole invischiarsi in loschi traffici con altrettanto loschi amici pare sviluppata come un compitino delle elementari. Se ne intuiscono gli sviluppi, a esser buoni, dopo (troppo) poco tempo. L’intelaiatura drammatica del film ne fa un’opera un po’ sentimentalista, ma senza il necessario vigore per destare un interesse non superficiale.

Più azzeccata, invece, la scelta di scandagliare il mondo dei cowboys neri, e di offrire un ritratto del loro indomito spirito. Sarebbe stata, questa, certamente una scelta per un ottimo documentario, anzichè materia da dramma che si trascina spesso nelle secche della retorica. Anche perché – altra nota di merito, in tal senso – Staub decide di affidare gran parte dei ruoli secondari ai veri abitanti di Fletcher Street, dando brillantezza, vigore e freschezza alla malinconica descrizione di un mondo residuale e inusuale, ma certamente affascinante nel suo anacronismo.
Concrete Cowboy
Regia: Ricky Staub
con: Idris Elba, Caleb McLaughlin, Jharrel Jerome
sceneggiatura: Ricky Staub e Dan Walser
anno: 2020
durata: 111 minuti
disponibile su: Netflix
trama: Cole, ragazzino dall’indole irrequieta, viene spedito dalla madre esausta a passare del tempo in compagnia del padre Harp, gestore di un gruppo di scuderie collocate nel centro di Filadelfia. All’interno di questa comunità interamente nera, Cole deve imparare a essere un uomo e a districarsi da cattive compagnie, anche se l’unica strada disponibile sembra quella – a lui sgradita – di integrarsi con i cowboy della zona.
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