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Away - Hilary Swank durante lo sbarco sulla luna

Recensioni

Away: la metafora del viaggio nello spazio

Dalla penna di Andrew Hinderaker un viaggio su Marte che metterà a dura prova le leggi della vita e la nostra vulnerabilità emotiva.

Tempo di lettura: 4 minuti

Negli anni passati gli attori di serie tv erano vincolati a un rodaggio piuttosto lungo e impegnativo prima di poter approdare sul grande schermo. Da un po’ di tempo, invece, si è avuta un’inversione di marcia: sono i grandi del cinema a cimentarsi nella serialità della tv grazie anche alla limitatezza, in termini di durata, delle serie stesse. Lo abbiamo visto fare a Lucy Liu – pioniera di questo trend già dal 2012 – e come lei a Shaileen Woodley, Nicole Kidman, Reese Witherspoon, Naomi Watts, Emma Stone. Per la seconda volta dopo la partecipazione alla serie Trust è toccato alla due volte premio Oscar Hilary Swank (con Boys Don’t Cry nel 2000 e Million Dollar Baby nel 2005, di cui vi consiglio spassionatamente la visione) la quale in Away, prodotto originale Netflix in uscita il 4 settembre, interpreta un’astronauta americana pronta – o forse no – a intraprendere il primo viaggio verso il pianeta Marte.

La NASA le affianca un team di figure professionali indispensabili a che le esigenze qualitative e le preponderanti aspettative sulla buona riuscita della missione trovino riscontro: un ingegnere russo, un biologo inglese, un chimico cinese e un medico indiano. La convivenza forzata in uno spazio ristretto come quello di una nave spaziale, dalla quale non poter letteralmente nemmeno mettere il naso fuori, risulta tuttavia sin da subito deficitaria e ostica; cozzano violentemente tra di loro gli ideali di ciascuno e con essi principi interpretativi, predisposizioni e indole caratteriale derivanti in gran parte dalla provenienza degli astronauti e dalle condizioni geo-sociali in cui sono stati plasmati. A salvarsi da questa passiva guerra ideologica è solo Emma, donna razionale, matura e coerente che in quanto comandante della nave e della missione ha il compito di non alimentare questi fuochi e, al contempo, cercare di spegnerli.

L'equipaggio della nave spaziale 'Atlas'

Ma in un contesto in cui l’obiettivo è comune e le avversità del viaggio rappresentano un pericolo per tutti, le opinioni sull’altro rigidamente generalizzate e costruite sulla base dei classici pregiudizievoli stereotipi vengono deliberatamente mondate e questo, contemporaneamente, consente al senso di responsabilità di prendere il sopravvento e divenire così il leitmotiv della missione. La scelta di inserire nell’equipaggio cinque membri a rappresentanza di cinque diverse nazioni, impostasi esclusivamente dalla necessità diplomatica di dare al mondo una (falsa) immagine di sé unita e collaborativa, condurrà alla fine a un inaspettato e involontario successo che trascende il mero scopo del viaggio e lancerà un messaggio universale di quanto la sincera unione e la capacità di fare squadra siano indispensabili per la riuscita non soltanto di una missione spaziale, ma in generale della vita – come dimostrerà l’ultima scena delle serie.  

Inversamente proporzionale alla lontananza fisica è la vicinanza emotiva ai propri cari che i protagonisti rivelano a singhiozzi attraverso un’accurata serie di flashback che li catapultano di prepotenza in quei contesti familiari che sono stati costretti a lasciare con tanta amarezza. I ricordi sono talmente centellinati ed evanescenti che la loro visione ci porta a concepire noi stessi come degli intrusi, dei custodi di una coraggioso e intimo sharing di cui quasi sentiamo non averne alcun diritto. La rotta è verso Marte, ma lo sguardo è sempre puntato verso la Terra; sui piatti della bilancia sono accomodati la rinuncia e la scoperta, l’abbandono e la conquista, l’egoistica staticità della singola vita e l’evoluzione dell’intera umanità. Paradossalmente si ha quasi l’impressione che la più dura delle sfide non sia tanto rappresentata dalla riuscita della missione, quanto dall’essenziale, consapevole e anticipata accettazione che ciò che verrà perduto, in termini di assenza, non potrà più essere recuperato.

Matt ed Emma in una scena della serie

Away sembra raccontarci dell’insaziabile fame di conoscenza da parte dell’uomo, del bisogno viscerale e intrinseco di ognuno di noi di conoscere le nostre origini e di poter semplicemente avere una risposta al quesito più ancestrale di tutti: perché siamo vivi. Ma è solo un pretesto per sdoganare qualche insegnamento pratico, come quello che spazio, tempo e distanza sono concetti relativi. Quel ‘via’ del titolo è solo un lapsus beffardo, una sardonica provocazione per i più deboli. Away è una storia di speranza, adattamento, sacrificio, condivisione, riscoperta di sé attraverso l’altro. Prendiamo lentamente coscienza che quello che vuole raccontarci non è nascosto nello spazio cosmico ma tra le pieghe (e piaghe) del nostro spazio interiore.

La narrazione si sovrappone a quella del viaggio, lenta e flemmatica, ma sempre punteggiata da momenti di suspense tipici di ogni rispettabile impresa spaziale e che si agganciano a noi a tenaglia conducendoci alla fine di ogni episodio. Il successo di una serie dipende sempre e solo dalla capacità di saper comunicare con il telespettatore. Away attiva i nostri neuroni specchio in più di un’occasione portando a galla un’emotività latente che condurrà alcuni di voi al pianto (quello sano) grazie soprattutto a una pulita performance di un’iconoclasta Hilary Swank che disfa senza irriverenza alcuna le immagini della solinga astronauta di Sandra Bullock (Gravity) e di quella intraprendente di Anne Hathaway (Interstellar).

Per una sbirciatina visuale della miniserie tv il trailer ufficiale italiano.

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