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Anniversari

Quei bravi ragazzi, il ritorno all’infanzia di Martin Scorsese

A 30 anni dall’uscita di Quei bravi ragazzi, Martin Scorsese ripensa alla genesi di quel film strettamente legato alle proprie origini.

Tempo di lettura: 6 minuti

I gangster che conoscevo io erano quelli che rubavano le sigarette e le rivendevano all’angolo della strada. Non ho mai conosciuto i Corleone, con le loro regge e il loro lusso, li ho sempre e solo visti sullo schermo.
No, i gangster che conoscevo io vivevano in appartamenti dentro a grandi condomini, alcuni con case ben arredate, altri con case abbastanza squallide, nessuno di loro viveva mai nel lusso.

Ma erano comunque i boss del quartiere: c’era chi aveva un negozio di fiori, chi una macelleria, chi un ristorante; era gente inserita nella comunità, ma se c’era un problema ci pensavano loro. Era questo il mondo che conoscevo, ed era questo il mondo che mi interessava raccontare.
Mio padre aveva otto o nove fratelli, mia madre altrettanti; ero sempre circondato da schiere infinite di zii, zie, cugini, che vivevano nel nostro stesso quartiere, si stava insieme, si pranzava insieme la domenica, si festeggiava e si litigava. Per lungo tempo riconosco di essere stato reticente sulle mie origini, pur realizzando film che parlavano di me; fu Toro Scatenato il film che mi fece fare pace con me stesso, forse perché mi ero accorto che quel mondo stava lentamente scomparendo.

Il rispetto, in quell’ambiente, per tutti loro, per tutti noi, era qualcosa di fondamentale.
Il rispetto e il suo contraltare, che non a caso ha una relazione profonda con i sentimenti, con l’amore: il tradimento.
In fondo, a pensarci bene, il rispetto, la fiducia, il tradimento sono temi sempre ricorrenti nel mio lavoro. A volte ho l’impressione di girare sempre lo stesso film.

Non vengo da una famiglia di artisti, le mie origini hanno radici in quel mondo lì, in quel mondo che da piccolo ritenevo insostenibile e che avrebbe finito per schiacciarmi se non avessi trovato rifugio nella mia immaginazione.
Ero un bambino malato, asmatico, ricevevo sempre mille attenzioni, quando ridevo avevo l’affanno, e di conseguenza ero terrorizzato da tutto, sopratutto dalla gente potente, quelli al di sopra della legge, i gangster. Mi atterriva quell’atmosfera di pericolo incombente, la sensazione che gli eventi potessero precipitare da un momento all’altro, che la più banale, la più innocua delle situazioni si potesse improvvisamente trasformare nel più fatale dei pericoli.

Avevo questo pensiero della mia infanzia in mente quando girammo la famosa scena in cui Joe Pesci chiede a Ray Liotta “Perchè dici che sono buffo? Buffo come? Che ci trovi di buffo? in Quei bravi ragazzi; non a caso si trattava di un episodio realmente accaduto a Joe con un suo amico nel Bronx e trovai, quando me lo raccontò, che esprimeva splendidamente l’essenza di quel mondo: un palcoscenico in cui non si può mai sbagliare una mossa, dove stai ridendo e scherzando con un gruppo di amici e un momento dopo ti può capitare di essere ammazzato per una parola sbagliata.

Il mio amico Marlon Brando aveva cercato di mettermi in guardia: ”Non fare un altro film di gangster. Hai fatto Mean Streets, hai fatto Toro Scatenato, risparmiati questo”. A momenti mi convinceva. Ma avevo capito subito che Quei bravi ragazzi sarebbe stato un film diverso. Fin dall’inizio una cosa mi fu chiara: sarebbe stato un film d’attacco. Quello che avevo in mente era un netto e sostanziale attacco al pubblico, con rabbia ed energia: volevo catturarli, trascinarli dentro al film, ammaliarli con lo stile e poi farli a pezzi, farli infuriare.

Volevo sbattergli in faccia la storia di un gangster di piccolo calibro, uno di quelli che non farà mai carriera, nessuna epica e nessuna tragedia, mostrare semplicemente la quotidianità che io stesso conoscevo, che avevo visto e che avevo vissuto.
Fu molto divertente girare Quei bravi ragazzi, la sceneggiatura di Nick Pileggi era davvero scritta molto bene. Era, di fatto, un soggetto con poco spazio all’intreccio, cosa che mi rendo conto caratterizzi gran parte dei miei lavori, a parte il finale in cui Pesci viene ucciso perché ha ammazzato il tipo sbagliato. Poco intreccio, ma un soggetto estremamente forte, un po’ come in Nemico pubblico, il film del 1931 di William A. Wellman che non nego di aver avuto in testa mentre giravo Quei bravi ragazzi, con la sua spietatezza e tutta la sua brutalità.

Ad ogni modo, era già tutto lì, nella sceneggiatura, le immagini sembravano balzare fuori da quei fogli, compresi i famosi freez frame della sequenza iniziale, o il famoso piano sequenza dentro il Copacabana. In fondo è quello il premio per tutto il sangue versato e le morti provocate, è per quello che lo fanno, è quello il privilegio a cui ambiscono: saltare la coda e ottenere il tavolo in prima fila al Copacabana. Non sanno però, o fingono di non sapere, che pagheranno questo privilegio con la stessa moneta con cui l’anno ottenuto, con il sangue e con la morte, perché in quel mondo è così che funziona.

Un mondo reale, in cui la violenza faceva sempre da sfondo e non era mai inspiegabile, ma derivava sempre da qualcosa. Ricordo che una delle critiche che ho sempre più trovato più ridicole rivolte a Mean Streets fosse appunto per la violenza gratuita.
No, per me non esiste la violenza gratuita, è sempre tutto molto più legato a una dinamica di causa ed effetti, spesso improvvisi. È un po’ ciò che abbiamo mostrato con la scena tra Pesci e Liotta, ma è anche ciò che accade al ragazzetto, sempre in Quei bravi ragazzi, che finisce ucciso per aver mandato a fare in culo Pesci dopo che questi gli aveva già sparato a un piede: non c’è scampo per lui, quello è l’unico mondo che conosce, non può andar via, trasferirsi, scappare, non conosce nessuno, non è istruito, e così dopo che gli hanno frantumato il piede torna ancora lì e finisce per morirci.

La violenza ha sempre una ragione; i miei gangster sono sempre mossi da una motivazione profonda, ma non sono mai degli eroi: Henry Hill è cresciuto in quel mondo e di quel mondo ha sempre voluto farne parte, ma per me ha sempre saputo che la sua “carriera” non sarebbe durata per sempre, c’è mi sembra di ricordare addirittura una battuta nel film in cui dice chiaramente “Tutto questo può durare al massimo dieci anni”; ed è effettivamente così che, senza epicità e senza tragedia, ad un tratto semplicemente finisce di spassarsela. Peggio per lui!

Ancora una volta il tradimento, la fiducia, l’amicizia. In Mean Street erano sentimenti da ragazzi, giovanili; in Quei bravi ragazzi erano sensazioni veicolate da protagonisti nel pieno del loro fulgore, giovani ed esuberanti; in Casino erano già più maturi.
È come se avessi letto il mondo del crimine americano attraverso le diverse fasi della vita di un uomo. Per questo penso che The Irishman metta una parola conclusiva a questo percorso, perché sono riuscito a mostrare la prospettiva di un uomo anziano che si volta a guardare il proprio passato. Spesso non si pensa che anche questi individui invecchino…

Quei bravi ragazzi è stato per me una rinascita dopo un brutto periodo. L’ultima tentazione di Cristo era stato il progetto che avevo inseguito per anni e realizzarlo mi aveva letteralmente svuotato. Sono molto legato ad entrambi, oggi, per ragioni diverse.
Ho conosciuto tanti “bravi ragazzi”: alcuni sono finiti male, altri si sono salvati perché non erano in grado di fare del male sul serio, e allora venivano umiliati per questo.
Era il mio mondo, mi ha sempre affascinato; mi mette i brividi ancora oggi.
È stato il Cinema a salvarmi, in fondo. Pur vivendo in quell’ambiente non avevo l’indole per entrare in quel mondo, era un ragazzetto malaticcio e asmatico e avevo deciso di diventare un prete. O forse, senza il Cinema sarei stato alla fine anche io un Henry Hill qualunque, sarei diventato una normale nullità e avrei finito per vivere tutta la vita come uno stronzo qualsiasi.

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