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Frances McDormand

Cinema

Nomadland, viaggiare tra i territori ameni dell’anima

Nel cammino evolutivo di Nomadland, la componente spaziale diviene psichica: iniziare a guardarci intorno per imparare a guardarci dentro.

Tempo di lettura: 5 minuti

Il tema del viaggio non contraddistingue solo la vita di Fern, ma si è rivelato essere una costante anche per il film: Nomadland ha annunciato sé stesso battendo le coste dei vari paesi, da un capo all’altro del mondo, attingendo e donando ad ogni rassegna cinematografica e festival, specchio riflesso dei due concetti essenziali incarnati nella forma di vita senza fissa dimora di cui ci parla (senza volercela spiegare) Chloé Zhao. Abbiamo vissuto un semestre di febbrile trepidazione, sentendone parlare in ogni occasione, ma non potendo assaporarne direttamente la splendente bellezza. A ridosso di una zoppicante e quanto mai incerta riapertura delle sale cinematografiche, nel frattempo Nomadland è disponibile in streaming su Star (Disney+) dal 30 aprile. One step at time.

Nomadland

Attraverso la resilienza cosmica

Nello stralcio esistenziale che fugacemente traversiamo con la vita quasi sempre in gola, Fern riserva per sé la posizione di chi non fa appello alla sveltezza di allontanare le cose sgradevoli, ma al contrario le apprezza, per la loro capacità di saper racchiudere anche altro. La sua anima, elongazione implicita dei toccanti paesaggi che fanno da cornice alla sua transizione, fisica e fisiologica, ha una muscolosità mnemonica che filtra il dolore, e che la mette difronte alle scelte rendendola consapevole che la vita è semplicemente una linea curva bisognosa di chiudersi proprio in quel punto del piano da cui è partita.

Il topos odeporico, che certamente ha il sapore di un peregrinaggio ascetico ed incorporeo, rivela una trascendente abneganza che decolora la linea di confine tra la statica polarizzazione del mondo interiore: quella fusione sentimentale tra gioia e sofferenza, che i più leggono come un’utopia antinevralgica, ha in realtà una matrice paritetica che le rende complementari, spalancando la vita a possibilità infinite, combinazioni di variabili che trasformano il concetto di mutevolezza da deludente discontinuità a sconfinato desiderio di sperimentare.

Nomadland

L’esegesi raccontata da Nomadland favoreggia l’accoglienza piuttosto che il diniego, l’adeguamento piuttosto che la riluttanza, e lo fa spogliandosi straordinariamente di ogni tocco mitopoietico e smaccato di storie come queste, che spesso tentano di infondere il coraggio di cambiare prospettiva dalla quale vedere il mondo. Chloé Zhao strumentalizza la semplicità concettuale, che dialoga con lo spettatore in maniera incredibilmente chiara trascinando con sé una moltitudine di profili dell’io – il cambiamento, la resilienza, la solitudine e la necessità epidermica di relazionarsi con l’altro – che la regia, flemmatica e mai impetuosa, ci mostra concatenati gli uni agli altri da un sincronismo ineluttabile.

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La temporaneità della bellezza

Ci muoviamo nel mondo vincolati ad una spirale di eventi da cui siamo soggiogati e spesso anche oppressi: c’è chi lo chiama fato, chi disegno divino, chi destino, ma guerreggiare per guadagnarsi – meritatamente – il timone della vita ci rende, in automatico, responsabili delle nostre personali convergenze. Fern decide – e lo fa con armonia e libertà – di non farsi sopraffare dal tocco ignoto e incontrollato dell’ingiustizia, quella che l’ha stravolta all’improvviso. Più che sentirsi tampinata da lei, Fern la posterga, la coccola, la sguarnisce: godere della bellezza della vita è l’antidoto astratto che ne neutralizza la sua velenosa durezza.

Fern lascia così emergere il suo bambino interiore, quello che ride di gioia imparando a sostituire uno pneumatico, che finge di essere l’autista di un caravan che non avrà mai la possibilità di guidare, o che impaurito ed elettrizzato al contempo abbraccia un pitone e parla ad un alligatore attraverso una serie di versi onomatopeici. L’inclemenza di una situazione sfortunata che l’ha spaccata in due senza alcun preavviso e che l’ha costretta con violenza a maturare e a perfezionarsi nella gestione dell’inconveniente, è contrastata dall’esplosione di una goliardica infantilità, l’elemento dinamico della nostra interiorità che, magnanimamente, ci consente la fuga da una realtà avversa e stancante.

Nomadland

L’attenzione per il dettaglio, per la circostanza minuta, per tutto ciò che, espressione di quella caducità che terrorizza, resta volontariamente nascosto, latentemente dissimulato, consente un cammino evolutivo che porta l’io a considerare delle realtà interiori prima di allora sconosciute, o addirittura impensabili. La componente spaziale diviene così psichica: iniziare a guardarci intorno per imparare a guardarci dentro. Nella riverenza del racconto, Nomadland è semplice apotegma, invita senza invadenza al filoneismo qualcosa che forse con un occhio critico ed un po’ di attenzione, avremmo potuto scoprire anche in solitaria.

L’emblematico milieu della vita

In un intreccio sapientemente livellato, Nomadland si sdoppia su due piani, paralleli sì, ma chiaramente distinti: ciò che si vede, l’empirico, e ciò che non si vede – ma si percepisce -, il simbolico. Un esempio (forse il più emblematico di tutti) quello del deserto: ambiente ostico e restio per natura ad accogliere nuova vita – e per questo spesso metafora a carattere dispregiativo di aridità intellettuale – qui è invece un focolaio di legami simbiotici, di tacite letture dell’altro, con il quale non può che fare da ponte empatico la condivisione di esperienze simili.

I paesaggi del Nevada, che al tramonto si colorano anche di un’incurabile malinconia, abbracciano il sincretismo tra l’esterno e l’interno: la vita è un anaglifo milieu che appare ai nostri occhi mutilato ed intermittente solo se siamo noi a renderlo tale. Con Fern e gli altri che incontrerà lungo il suo percorso non ha importanza il dove, ma solo il come: il verso della canzone di Morrissey, “Home is just a word or it is something you carry within you?”, che una delle ragazze di Amazon aveva tatuato sul braccio, è speranza insita di ognuno di noi che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è serbato e custodito gelosamente nei luoghi ameni dell’anima, quelli che raccontano l’intensità e lo slancio vitale con il quale abbiamo vissuto qualcosa.

Nomadland

Non a caso quel cerchio di vita di cui prima – che in Nomadland coincide anche con quello narrativo – si chiude con il ritorno di Fern ad Empire, cittadina limitata in termini di spazio ma anche di opportunità che, nonostante la sua rustica piccolezza, ha saputo regalarle tanto. Fern torna con immensa serenità in quel posto dal quale non era fuggita perché tana di un’insostenibile malessere associato ad esperienze preterite, ma dal quale era stata costretta ad andare via per forze di causa maggiore, ricordando a sé stessa che il passato, il presente ed il futuro non sono definiti da entità geografiche circoscritte, ma da un fluido dipanarsi di emozioni, spiragli caleidoscopici dai quali osservare la vita, proprio come quelle pietre del deserto piene di fori, dai quali poter osservare il paesaggio con occhio curioso ed innamorato della vita.


Nomadland
regia: Chloé Zhao
con: Frances McDormand
sceneggiatura: Chloé Zhao
anno: 2020
durata: 107 minuti
disponibile su: Star (Disney+)
trama: Dopo aver perso il marito e il lavoro durante l Grande Recessione, la sessantenne Fern lascia la città aziendale di Empire (Nevada), per attraversare gli Stati Uniti Occidentali  sul suo furgone, facendo la conoscenza di altre persone che, come lei, hanno deciso o sono stati costretti a vivere una vita da nomadi moderni, al di fuori delle convenzioni sociali.


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