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Nell'erba alta

Cinema

Nell’erba alta l’unica cosa a far paura è la noia

Nell’erba alta è l’ennesimo tentativo (poco riuscito) di trasportare in immagini un horror uscito dalla penna di Stephen King. A vincere, è la noia.

Tempo di lettura: 3 minuti

Poco più di 10 anni fa M. Night Shyamalan provò, con scarso successo, a girare un film dove le protagoniste erano delle piante capaci di rilasciare una tossina in grado di spingere gran parte della popolazione mondiale al suicidio. Quel film si chiamava E venne il giorno, e rappresentò l’inizio di un periodo di carenza creativa per il regista indiano che arrivava dagli exploit de Il sesto senso, Unbreakable e The Village.

A ripetere un’operazione simile, nel 2019, ci ha pensato il regista Vincenzo Natali (lo stesso del film cult Cube – Il cubo, di ormai 22 anni fa) attingendo a piene mani da un racconto scritto da Stephen King insieme al figlio Joe Hill, Nell’erba alta, e pubblicato sulla rivista Esquire nel 2012.

Due fratelli, diretti in auto verso San Diego per un non meglio precisato motivo, si fermano nei pressi di una chiesa abbandonata. Lei è incinta e ha bisogno di una boccata d’aria. Davanti a loro, una spianata di erba (alta). All’improvviso, la voce di un bambino che chiede aiuto attira la loro attenzione. Quella voce proviene proprio da lì, da quel mare di erba apparentemente infinito dove i due, spinti dall’intento di salvare il bambino, si perderanno poco dopo senza ritrovare la via d’uscita.

Nell'erba alta

E’ bello quando un film ti prende e ti tiene incollato allo schermo fin dai primi minuti. Quando la sceneggiatura non si perde in incipit inutili e tediosi per introdurre senza brio una storia, come succede nel caso di Nell’erba alta, disponibile su Netflix dal 4 ottobre. Tutto questo è da considerarsi positivo quando ci si trova davanti ad una storia dalle classiche tinte horror. D’altronde qui c’è King che dell’horror è il Maestro indiscusso. E allora i primi 20/25 minuti del film di Natali conquistano l’attenzione del pubblico grazie a quelle atmosfere di suspense e di una minaccia che incombe ma che ancora non è chiaro quale sia. Che poi, per inciso, sono i classici tratti distintivi di quasi tutti i racconti usciti dalla penna di Stephen King.

L’erba (alta, altissima) avvolge i protagonisti. Li intrappola, senza dargli scampo. Cosa si nasconde in quel mare di verde? Quel bambino che chiede aiuto chi è? Ma soprattutto: che potere ha l’erba? Col passare dei minuti le domande – che, ad onor del vero, trovano quasi tutte una loro risposta – si accumulano. E con loro si accumulano anche tante altre tematiche. Vincenzo Natali, se all’inizio lavora di sottrazione, da un certo punto in poi si fa prendere la mano e accumula, accumula fino all’inverosimile buttando nel calderone troppa carne. Ma ad accumularsi, con il passare del tempo, è anche la noia.

Nell'erba alta

Al centro del mare di erba (alta, altissima, spaventosamente alta) si nasconde una roccia. Chi la tocca, diventa pazzo obbligando gli altri che sono capitati dentro a redimersi. Sì, perché nell’erba (alta, eccetera eccetera) non ci si finisce per caso: ci si arriva perché la vita ti ha messo ad un bivio ed è il momento di decidere cosa fare. E’ finito il tempo di perdersi senza sapersi ritrovare.

L’accumulo, dicevamo. Loop spazio temporali, metaforoni sulla gravidanza, il culto di una divinità superiore a cui rendere grazie giustificando qualsiasi cosa. Tante, troppe cose impediscono a Nell’erba alta di procedere nella direzione fluida e ricca di suspense che aveva contraddistinto la prima ventina di minuti del film. Se a tutto questo si aggiunge anche la mondimensionalità a cui vanno incontro tutti personaggi (si salva, in parte, solo quello di Patrick Wilson), si ha davanti l’ennesimo tentativo fallimentare di trasformare un romanzo di King in un film soddisfacente.

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