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Kirsten Dunst in Melancholia

Cinema

Melancholia e il (distruttivo) simbolismo del femminile

In tempi di quarantena, riscoprire Melancholia equivale a una discesa in una dimensione di senso che le nostre menti non avevano ritenuto possibile.

Tempo di lettura: 4 minuti

Dato il momento critico che tutti stiamo vivendo, caratterizzato da una veloce discesa in una realtà avulsa che nessuno di noi probabilmente riteneva veramente pensabile; e dato che le nostre vite nell’occidente del benessere e della vita media mai così lunga apparivano blindate, riproponiamo un film di non moltissimi anni fa, Melancholia di Lars von Trier, il cui cuore è appunto una rapida, non preventivabile discesa in una dimensione di senso che le nostre menti non avevano ritenuto autenticamente possibile.

UN CINEMA QUANTISTICO

Melancholia (2011), uno dei migliori film del danese Lars von Trier, ha il pregio di tracciare un collegamento tra interno ed esterno, la psiche e il mondo, giustapponendo due parti stridenti tra loro ma che pure, attraverso un ponderoso salto metaforico, originale e pregnante sia visivamente che semanticamente, dopo la visione acquistano una dimensione compiuta.

Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg in una scena tratta da Melancholia
Una scena tratta da Melancholia

Tanto il mondo dei rapporti sociali è ridotto ad un cumulo di macerie, come la prima parte del film suggerisce – il proverbiale nichilismo di von Trier non nasconde qui nulla di sé – quanto lo stesso mondo fisico è minacciato da un evento imponderabile che in qualche modo misterioso viene a legare la scala umana con quella siderale. Riecheggiano qui sia i Veda indiani, che migliaia di anni fa avevano suggerito che “tutto è uno”, sia i recenti sviluppi della fisica quantistica i quali, sorprendentemente, hanno ribadito tale assunto, attraverso la scoperta del cosiddetto fenomeno dell’“entanglement”: lo “spin” di due particelle intrinsecamente connesse, ovvero a grandi linee la loro rotazione spaziale, rimane legato a prescindere dalla distanza a cui le due particelle si trovano, un cambiamento nello “spin” dell’una porta istantaneamente un cambiamento nell’altra.

LA SALVEZZA FEMMINILE

Tornando al film, possiamo dire che se Melancholia offre una via d’uscita per questo mondo malmesso, von Trier la identifica nel femminile. Sono infatti le donne nel film a spiccare per coraggio e per aderenza alle cose, mentre gli uomini nel migliore dei casi sono sognatori inconsistenti, nel peggiore approfittatori cinici e aridi. Sono Charlotte Rampling nei panni di Gaby, la madre di Justine e Claire, e la stessa Justine interpretata da un’ottima Kirsten Dunst – premiata come migliore attrice a Cannes per questo film – a offrire esempi di resistenza alla corruzione imperante dei costumi enfatizzata dal regista danese.

Kirsten Dunst in Melancholia
Kirsten Dunst in una scena tratta da Melancholia

Solo i dialoghi tra Gaby e Justine hanno infatti il sapore di una vera libertà, del preservamento di una dimensione umana autentica in senso psicanalitico potremmo dire, ovvero del mantenuto contatto con sé stessi al di là delle costrizioni esterne. Justine, affetta da depressione clinica, sembra ottenere attraverso la propria patologia una conoscenza più  profonda di sé stessa, mediata dalla propria appartenenza al genere femminile – viene qui alla mente la venere di Willendorf, una statuetta paleolitica dai seni enormi che rappresenta una divinità femminile ancestrale che unisce la maternità al legame con la terra e alla fecondità –. Il regista sembra qui significare che l’unica via possibile per non smarrire il proprio posto nell’ordine dato dalla natura passi per il femminile.

SIMBOLISMI DI GENERE

Il personaggio di Claire, ottimamente interpretato da Charlotte Gainsbourg, è una sorta di tramite tra la sensibilità femminile e le brutture del maschile: è capace di un contatto ancora integro con le cose e con sé stessa, anche se lo raggiunge attraverso una notevole dose di sofferenza perché è incrostata dagli effetti prodotti dalla sua eccessiva adesione ad una “maschera” sociale, tipica dei personaggi maschili del film.  Il microcosmo di Melancholia offre un inquietante quadro di miserie umane, prevalentemente come detto riferibili al sesso maschile. Il padre di Justine e Claire, Dexter, che ha le sembianze dell’attore inglese John Hurt, è un farfallone incapace di uscire dal proprio narcisismo edonista; il datore di lavoro di Justine, Jack, interpretato dall’attore svedese Stellan Skarsgard, è totalmente assorbito dal potere che la sua posizione gli permette di esercitare sugli altri che ormai vive sé stesso solo attraverso la categoria del proprio lavoro di pubblicitario.

Kirsten Dunst in una scena tratta da Melancholia
Kirsten Dunst in una scena tratta da Melancholia

John, il marito di Claire, l’attore Kiefer Sutherland è radicato nella mitologia del denaro e in un razionalismo che non ammette il suo limite, chiaro richiamo ad uno scientismo estremista in grado di danneggiare gravemente l’uomo; Tim, impersonato da Brady Corbet, è il degno compare del datore di lavoro: non pone limiti alla dimensione del fare, ne è completamente fagocitato, e non a caso viene “annichilito” da Justine per il tramite  di un improvviso ed estemporaneo rapporto sessuale, che pare avere il fine di marcare il territorio e sancire davvero, a danno del mito fallocratico, qual è davvero il sesso forte e quale quello debole. Nemmeno il marito di Justine, Micheal, interpretato da Alexander Skarsgård, ne esce bene, non riesce ad essere più di una sorta di effimero sogno della mente di Justine, non lascia mai il segno nelle sue scene con la moglie e si arrende al suo destino con una rassegnazione che sa di debolezza. L’unico maschio ammesso a partecipare al finale del film è il bambino, Leo, probabilmente proprio in quanto non essendo ancora un uomo non è ancora stato fatalmente toccato dalla deriva del maschile che invece ha funestato gli altri membri del genere.

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