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Anniversari

Marco Bellocchio: gli 80 anni di un maestro del Cinema italiano in 5 fasi

Il maestro ha compiuto 80 anni il 9 novembre. 50 anni di carriera che hanno nobilitato il nostro cinema e contribuito a innalzare il livello della cultura italiana. Da I pugni in tasca a Il traditore, omaggio a un intellettuale libero.

Tempo di lettura: 8 minuti

Definire il cinema di Marco Bellocchio con un solo aggettivo è impresa impossibile. Il cinema di Marco Bellocchio è tante cose insieme: è un cinema mai banale, mai scontato, mai rassicurante, mai compiacente, mai assolutore, mai semplicistico. È sopratutto un cinema profondamente libero, che si è declinato lungo 50 anni di carriera in almeno cinque fasi.

Prima fase: rabbia giovanile

La prima fase del cinema di Bellocchio, che si potrebbe definire della “rabbia giovanile”, abbraccia un periodo che va da I pugni in tasca del 1965 a Nel nome del Padre del 1972.

È il 1965. l’Italia si sta godendo il suo boom economico, è un paese che va di corsa, fiorente dal punto di vista del Pil ma grigio e impettito dal punto di vista sociale. Bellocchio ha 26 anni e realizza una opera prima che manda in soffita il neorealismo e la nouvelle vague, anticipando i temi della imminente contestazione studentesca del ’68: I pugni in tasca è un esordio provocatorio, sconvolgente, esce in una Italia culturalmente rassicurata, sobria, conformista, placida, cieca; come la madre cieca di Ale viene uccisa dal figlio, così il film del figlio Bellocchio uccide il torpore della Madre Italia. Odio, amore, nevrosi, rabbia, colpa, ma sopratutto la polemica antiborghese (che sarà meglio esplicitata nel successivo La Cina è vicina) e la critica all’istituzione famiglia: ci sono già in questa opera prima i temi che caratterizzeranno tutto il cinema del Maestro nei 50 anni successivi, dando già una impronta ben precisa. Nessuno meglio di Pier Paolo Pasolini ha saputo spiegare cos’è stato I Pugni in tasca per l’Italia degli anni ’60 : “Il nocciolo del film è una specie di esaltazione della abnormità e della anormalità contro la norma del vivere borghese, contro le istituzioni e contro il livello medio della vita borghese, familiare. È una rabbiosa rivolta dall’interno del mondo borghese. È insieme, credo, con il film di Bertolucci (Prima della rivoluzione), il primo caso di un film italiano che sia andato al di là del neorealismo, come sono andati al di là del neorealismo certi film francesi o certi film inglesi.[…] È vero, il film non è un film realistico, però c’è l’esperienza neorealistica che non è affatto lasciata da parte, dimenticata; è assimilata; c’è un certo modo di vedere l’Appennino, un certo modo di vedere mettiamo la scena del ballo; sono echi stilistici della esperienza neorealistica. E così c’è anche, evidentemente, un tipo di denuncia critica di tipo marxista alla società”.

Una scena de I pugni in tasca di Marco Bellocchio

Seconda fase: denuncia

La seconda fase del cinema di Bellocchio vede al centro due film fondamentali, Sbatti il Mostro in prima pagina (1972) e Marcia trionfale (1976): si potrebbe dire cheè la fase della denuncia.

Probabilmente il film meno bellocchiano di Bellocchio, che subentrò alla regia in corso d’opera, Sbatti il mostro in prima pagina è un film che si avvicina forse più allo stile e alla sensibilità di Elio Petri, complice anche la presenza della solita monumentale interpretazione di Gian Maria Volontè (memorabile rimane la scena in cui analizza un titolo a suo modo sbagliato: “Ho copiato parola per parola il tuo occhiello e il tuo titolo: “Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli”. Ora, io non sono Umberto Eco e non voglio farti una lezione di semantica applicata all’informazione, ma mi pare evidente che la parola “disperato” è gonfia di valori polemici. Se poi me lo unisci alla parola “disoccupato”, “disperato disoccupato”, beh, allora ci troviamo di fronte a una vera e propria provocazione. Compiuta la quale, tu prendi questo pover’uomo di lettore e gli sbatti in faccia cinque orfani e un cadavere carbonizzato. No, dico, cosa vogliamo farne di questo pover’uomo di lettore, un nevrotico? Gli ha forse dato fuoco lui? Vogliamo vedere di rifare insieme questo titolo? Può capitare a tutti di sbagliare, no?”).

Gian Maria Volontè in Sbatti il mostro in prima pagina

Ma a differenza di Marcia trionfale, la critica, la denuncia qui è più didascalica, più marcata, a tratti resa (inutilmente) troppo esplicita dai dialoghi dei personaggi svelando forse una certa debolezza della sceneggiatura, sebbene riscritta con Goffredo Fofi. In questo senso, il direttore de Il Giornale Bizzanti, che strumentalizza un fatto di cronaca per fini elettorali, non ha i tormenti, le frustrazioni e le idiosincrasie tipiche dei personaggi bellocchiani, come il capitano Asciutto di Marcia trionfale. È un uomo compiaciuto, un uomo che dirige il suo giornale come dirige il corso degli eventi, indirizzandoli verso la scoperta di un colpevole che lui ha scelto. Il capitano Asciutto viceversa è un uomo sì di potere, ma sotto il peso di quel potere soccombe, finisce schiacciato dalla mancata paternità, dalla sua inadeguatezza sessuale e umana. Innegabile merito di Marcia trionfale è in ogni caso, tra gli altri, di mostrare la crudezza di una certa vita di caserma dall’interno e specularmente le aberrazioni di un potere a tratti incomprensibile.

Terza fase: psicanalisi

Sono forse questi i temi che spingono Bellocchio in quella terza fase che si potrebbe definire la fase della psicanalisi, caratterizzata dalla influenza sul regista delle teorie dello psicanalista Massimo Fagioli. Salto nel vuoto (1980), Gli occhi, la bocca (1982) e Diavolo in corpo (1986) sono i film che più di tutti risentono di questa influenza (sebbene verranno poi film caratterizzati da una collaborazione diretta dello stesso Fagioli, come La Condanna (1991) e Il sogno della farfalla nel 1994)

C’è sempre una finestra spalancata sul nulla in Salto nel vuoto, inquadrature dal basso e dall’alto, un senso generale di vertigine, di vuoto, di spaesamento, come spaesati appaiono i personaggi, il giudice di Michel Piccoli sopratutto. Ma bisogna agire, determinare il proprio destino. Il giudice Ponticelli è un nevrotico, un reazionario, un uomo frustrato, come il capitano Asciutto è inadeguato sopratutto nei confronti dell’altro sesso, confuso di fronte all’emancipazione femminile. Sebbene in modo diverso, entrambi sono artefici della loro disfatta, ma qui il finale tragico di Marcia trionfale assume i contorni onirici che sono più caratteristici di Bellocchio.

Marcia trionfale

È un tratto distintivo del cinema di Bellocchio quello di partire da uno o più episodi della propria biografia, personale e/o culturale: mai ciò è più vero come nel caso de Gli occhi, la bocca. In un certo senso Giovanni, che torna a casa per la morte del fratello gemello, è un personaggio a metà strada tra l’Ale de I pugni in Tasca (entrambi i personaggi sono non a caso interpretati dallo stesso attore, Lou Castel) e l’Ernesto Picciafuoco de L’ora di Religione, sospeso tra morte e rinnovamento. È ancora una volta un personaggio dilaniato, sospeso, lacerato a suo modo dal senso di colpa per l’amore verso la fidanzata che era del fratello morto e quello verso la madre inconsolabile.

Toni non riscontrabili in Diavolo in corpo, il film dello spaesamento, dello spettatore ma forse dello stesso regista, il film dello stupor depressivo. Qui come non mai, l’apporto di Fagioli risulta determinante nella definizione della depressione della protagonista, che in qualche modo decidendo di sposare il terrorista che aveva ucciso il padre, è come se accettasse un suicidio personale. Siamo in presenza di una storia d’amore poco personale, che in corso d’opera si tramuta nella trasformazione di una donna che man mano abbandona la sua follia.

Una scena di Diavolo in corpo

Del resto come lo stesso Bellocchio ha piu volte avuto modo di specificare, la follia e la sessualità sono due temi centrali di tutta la sua filmografia, ma mai come in Diavolo in corpo appaiono alla base dell’intero film. Scalpore naturalmente per la scena della fellatio, ma per una donna in crisi fare l’amore sarebbe stato quasi una violenza: molto più funzionale alla risoluzione della crisi, dal punto di vista psichiatrico, è evidentemente un rapporto tenero, gentile, orale.

Il film diventa importante nella filmografia del maestro perché contribuisce in maniera fondamentale a far cadere un velo, un distacco, del regista nei confronti dell’attore e delle attrici, coi quali da quel momento riuscirà ad instaurare un rapporto maggiormente diretto e franco.

Quarta fase: trilogia del potere

Ciò ci porta alla quarta fase del cinema di Bellocchio, quella che si potrebbe definire la fase della trilogia sul potere. Sia L’ora di Religione (2002) che Buongiorno, notte (2003) e Il regista di matrimoni (2006) declinano in modo diverso lo stesso concetto di Potere, ora della religione, ora quello politico (terrorista), ora quello dell’arte. Cosi, ne L’ora di religione l’obiettivo non è tanto quello di fare un film contro l’istituzione religiosa, non sarebbe da Bellocchio (sebbene il film si porta dietro questa lettura semplicistica, complice la strumentalizzazione della famosa scena nella quale vengono pronunciate due bestemmie): il vero bersaglio sono certi aspetti ipocriti, esteriori, dell’istituzione religiosa, l’uso della istituzione religiosa per questioni di potere.

Sergio Castellitto in L'ora di religione

Il potere politico è poi quello rappresentato dalla figura di Aldo Moro, oggetto e non soggetto al centro di Buongiorno, notte. Originale e come al solito personalissima la scelta di rileggere la vicenda attraverso gli occhi di una brigatista: Chiara è una militante, sicuramente una fanatica, ha assorbito e introiettato tutti gli slogan e tutta la più vacua retorica farneticante delle Br, ma ha anche dei dubbi, sembra provare empatia per il prigioniero, sogna di liberarlo. La denuncia qui non è precipuamente politica, è una denuncia quasi esistenziale, implicita nei fatti raccontati, come esplicito è invece l’accostamento tra le lettere di Moro alla moglie e ai familiari e le lettere dei condannati a morte della resistenza italiana nel sogno della protagonista.

Livello onirico e livello del racconto reale si incontrano e non smettono di ricorrersi sopratutto ne Il regista di Matrimoni, metaforica e surreale storia di amore e insieme di fuga. Il potere dell’arte e la critica verso le strumentalizzazioni, verso i “morti che comandano” in Italia: ansia da rinnovamento, sete di rivoluzione.

Buongiorno notte

Quinta fase: contemporaneità

La quinta fase ci porta ai giorni nostri. Film mai banali, da Vincere (2009), a Bella addormentata (2012) a Sangue del mio sangue (2015), fino a Il traditore (2019). Il matrimonio segreto del Duce, il caso Englaro, la storia del primo pentito di Cosa Nostra confermano Bellocchio autore intellettualmente onesto e libero da qualunque ansia conformistica. Assumono un ruolo centrale anche qui i luoghi, il manicomio in Vincere, la clinica in Bella addormentata, il monastero in Sangue del mio Sangue.

È, del resto, un cinema di interni quello di Bellocchio, per certi versi quasi claustrofobico: c’è sempre una casa (perché c’è sempre una famiglia o il suo simulacro) al centro della scena, da I pugni in tasca, a La cina è vicina, a Nel nome del Padre e Buongiorno notte, a Gli occhi, la bocca. La casa diventa essa stessa protagonista in quanto assume spesso la funzione di detonatore della rabbia, delle frustrazioni e delle ribellioni dei personaggi.

È un cinema di “nomi” quello di Bellocchio, che non sono mai banali o casuali, ci dicono sempre qualcosa sul personaggio, sulla sua personalità, sulla sua psicologia: il capitano Asciutto, il giudice Ponticelli, Franco Elica, il Conte Bulla, Giovanni Sciabola, Angelo Transeunti, Giancarlo Bizanti, Giovanni Pallidissimi, Paolo Passeri, Ernesto Picciafuoco, Uliano Beffardi, Orazio Smamma, e poi Ale/Sandro/Alessandro come viene chiamato durante il film, il matricida che nemmeno attraverso il nome è possibile identificare appieno.

Filippo Timi

Il cinema d’immagini di Marco Bellocchio

È un cinema di immagini quello di Bellocchio. Immagini che diventano visioni. Visioni che diventano Cinema.

Una giovane donna che giace sua una panca, bella e addormentata, appunto. O Aldo Moro che si incammina infreddolito nel grigiore di un’alba appena piovosa. O Andreotti in mutande mentre prova un abito sartoriale.

O lo stupendo campo-controcampo in L’ora di religione, tra Ernesto Picciafuoco e quella che crede essere l’insegnante di religione del figlio. “Lei è molto bella”, constata lui. “Si, ma non basta”, ammette lei: “è il verso di una poesia russa che sembra scritta apposta per me . La vuol sentire? È breve. E’ fuggita l’estate, più nulla rimane. Si sta bene al sole. Eppur questo non basta. Quel che poteva essere, una foglia dalle cinque punte mi si è posata sulla mano. Eppur questo non basta. Ne’ il bene ne’ il male sono passati invano, tutto era chiaro e luminoso. Eppur questo non basta. La vita mi prendeva, sotto l’ala mi proteggeva, mi salvava, ero davvero fortunato. Eppur questo non basta. Non sono bruciate le foglie, non si sono spezzati i rami… Il giorno è terso come cristallo. Eppur questo non basta.”.

È il cinema di Marco Bellocchio, di cui non si è mai sazi, a non bastare mai.

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