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La schizofrenia dei backup: dalla conservazione perenne, ai messaggi che si autodistruggono

La dicotomia dei social network: contenuti che vengono immediatamente salvati sul cloud e altri creati per essere distrutti poco dopo.

Tempo di lettura: 2 minuti

Viviamo ormai a strettissimo contatto con i nostri dispositivi elettronici, costantemente connessi alla rete: computer, tablet, TV, l’immancabile “smartphone”, evoluzione del “telefonino” anni ‘90. Viviamo una vita parallela sui social: Facebook, Twitter, Instagram, Whatsapp, Snapchat e chi più ne ha, più ne metta. Ogni volta che scattiamo una foto, produciamo un documento, scriviamo una cazzata pensiero su Facebook o Twitter, questo rimane memorizzato da qualche parte nel cloud.

Facebook memorizza tutto: foto, testi, localizzazione. Gli smartphone Android fanno il backup delle immagini e di tutte le app su Google Drive. Whatsapp fa il backup giornaliero di tutti i messaggi, sempre su Google Drive. Google Maps memorizza tutte le nostre localizzazioni e la stessa cosa fa Apple con i suoi iPhone. Ogni nostro bit è prima digerito da uno dei sistemi (o più di uno: se lo si desidera ogni foto viene caricata su OneDrive, Google Foto, Amazon Photos, Dropbox e via elencando) e poi memorizzata nel cloud: di fatto viene eseguito un backup immediato di tutto quello che produciamo. Per quanto ne sappiamo, questo archivio potrebbe essere eterno.

Security

Una memoria imperitura della nostra vita digitale, sulla quale noi abbiamo un controllo solo teorico. In realtà chi mai si mette a cancellare i post di 10 anni fa quando postavamo frasi sessiste che oggi sarebbero considerate inaccettabili dopo il #MeToo? Chi si prende la briga di cancellare dalla memoria del cloud le foto scattate al mare con il fidanzato dell’epoca, sepolte sotto una valanga di nuove foto scattate successivamente? Magari tra altri due lustri ci farà piacere rivederle o il movimento me too si sarà quietato e le frasi sessiste saranno tornate di moda. Nel frattempo il tutto resta lì: immutato, immarcescibile, sempre fresco, senza il benché minimo segno di invecchiamento.

Forse è come reazione a questa virtuale memoria sempre pronta a riaffiorare che sono nati i messaggi autodistruggenti. Una storia su Snapchat o Whatsapp o Facebook dura 24 ore, poi scompare, togliendoci dall’imbarazzo di dover essere coerenti con il noi stessi del giorno prima. Un giorno possiamo gridare “morte ai negri” e il giorno dopo dichiararci profondamente antirazzisti. Certo, anche le storie possono essere salvate, ma richiedono un’azione da parte dell’utente (sia da parte del produttore che del consumatore), altrimenti, semplicemente si distruggono, non esistono più, non possono essere ricercate. La stessa cosa dicasi dei messaggi “autodistruggenti” in arrivo su whatsapp: non se ne avrà più memoria.

E così ci ritroviamo a vivere in un modo dicotomico: da una parte una memoria imperitura e dall’altra qualcosa che si disintegra del giro di 24 ore (o meno). Questo forse dovrebbe insegnarci qualcosa sulla schizofrenia del nostro tempo. O forse dovrebbe portarci a riflettere sull’utilizzo dei social network. O dovrebbe stimolarci a porci domande filosofiche.

O invece forse dovremmo semplicemente abituarci al fatto che abbiamo la possibilità di utilizzare molti strumenti diversi con funzionalità diverse.

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