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L'age d'or

Anniversari

L’âge d’or: l’inno alla libertà di Luis Buñuel

A novant’anni dall’uscita, ripercorriamo l’odissea surrealista L’âge d’or, opera del geniale Luis Buñuel.

Tempo di lettura: 6 minuti

Usciva novant’anni fa L’âge d’or, secondo lungometraggio di Luis Buñuel. Un film-manifesto, espressione di un cinema piombato sulla terra dal futuro. Un’opera caustica, allora come oggi capace di sprigionare una forza poetica (e polemica) inossidabile, irriducibile. L’âge d’or, e tutta la teoria cinematografica incarnata dal duo Buñuel/Dalì, fu molte cose insieme. Principalmente, fu la più compiuta e radicale espressione di una negazione ontologica applicata a molteplici campi, non ultimo quello della teoria cinematografica.

Un linguaggio anti-sistema per liberare il cinema

Agli albori degli anni ’20 il cinema mondiale (cioè, ai tempi, essenzialmente americano ed europeo) andava acquisendo un proprio statuto autonomo, una specifica grammatica e un’insospettata reputazione. I registi iniziavano a essere considerati “veri” artisti, alla stregua di scrittori, pittori e autori teatrali. I loro “testi”, parimenti, iniziavano a essere oggetto di uno studio sistematico simile a quello riservato a scritti o dipinti. Il primo decennio del secolo aveva visto l’affermarsi di un cinema narrativo, retto da una visione del mondo per lo più borghese e scandito nella stragrande maggioranza dei casi dalla regolare e chiara sintassi del montaggio analitico. Il film era – o aveva lavorato duramente per essere – una riproduzione della realtà. In questo progressivo e quasi trionfalistico processo di manifestazione dello spirito (cinematografico) assoluto, le avanguardie cinematografiche rappresentarono ciò che Feuerbach fu nei confronti della filosofia hegeliana: una negazione.

Una scena tratta da L'âge d'or
Una scena tratta da L’âge d’or

Futuristi, dadaisti e surrealisti, che alla metà degli anni ’20 si affollavano nei bar e nei circoli parigini, avevano intuito che solo dalla negazione dell’esistente poteva nascere qualcosa di nuovo, autentico e vitale. Il cinema avrebbe dovuto spezzare le catene della pur neonata grammatica filmica, emancipandosi dalle convenzioni di montaggio (di linguaggio) e sbarazzarsi di qualsiasi genere di ascendenza vagamente letteraria, teatrale o fotografica. Il cinema avrebbe dovuto elevare a ennesima potenza la sua vera natura: il movimento dell’immagine. Obbedire a quest’intento programmatico equivaleva a una liberazione, grazie alla quale il cinema avrebbe potuto (tornare a) essere autenticamente Cinema. Rottura, irriverenza, caso, arbitrarie associazioni di trasposizioni inconsce. E poi anche anti-divismo e anti-antropomorfismo, gusto per l’assurdo e il nonsense. In due parole, libertà totale. Anche dalla necessità di significare. Gli anarchici fermenti surrealisti miravano a un anno zero cinematografico. Da quel momento in avanti sarebbero bastati solo due comandamenti: potere all’immaginazione e tirannide dell’immagine.

(Doppio) sogno a occhi aperti

È a Parigi che il venticinquenne Buñuel si trasferisce nel 1925, in fuga da una Spagna che comincia a patire le svolte autoritarie di Primo de Rivera. Qui stringe con Salvador Dalí, in una delle amicizie artisticamente più folgoranti (e brevi) di ogni tempo. Il primo risultato del loro connubio, Un chien andalou (1929), costituisce l’ideale e imprescindibile prologo di L’âge d’or. I tempi di realizzazione dei due film, e la loro uscita ad appena un anno di distanza, testimoniano un furore realizzativo figlio di una gestazione febbrile, ma non per questo superflua nell’analisi del prodotto finale. Più delle decine di scene diventate oggi iconiche, a simbolico sostegno di varie tesi (lo sfregio antiborghese, l’attacco al potere politico e religioso, lo spirito libertario), a essere decisivo era infatti il metodo di lavoro, l’approccio all’opera. Il surrealismo di Un chien andalou non si limitava a trasporre l’inconscio freudiano sulle scene, ma faceva dell’automatismo psichico il teoretico centro propulsivo dei suoi creatori. Sarebbe riduttivo richiamare la semplice origine onirica di due delle più indimenticabili scene del film, quella dell’occhio tagliato dal rasoio (sognato da Buñuel) e della mano piena di formiche (Dalí).

Una scena tratta da L'âge d'or
Una scena tratta da L’âge d’or

Nelle parole di Luis, è ancor più interessante notare il procedimento di selezione delle migliaia di immagini e simbolismi possibili: «La regola era di escludere le immagini con un significato razionale, i ricordi o i rimandi culturali. Sceglievamo solo immagini che ritenevamo impressionanti». Di più: pare che l’intero processo si basasse su un diritto di veto, per il quale uno dei due autori proponeva un’idea, e l’altro aveva non più di tre secondi per approvarla o respingerla, in modo tale da eludere l’intervento censorio della ragione e avere una reazione il più possibile sincera. Viscerale, più che cerebrale. E non a caso, uno dei titoli inizialmente proposti per la pellicola fu Prohibido asomarse al interior, “vietato sporgersi/guardare all’interno”, richiamava per antifrasi esattamente il leitmotiv del film, che parlava proprio attraverso l’inconscio dei personaggi e dei suoi autori.

L’eterno (e frustrato) pellegrinaggio per la libertà

L’âge d’or costituisce la versione canonizzata, grammaticalmente “più corretta” di Un chien andalou. L’ondivaga esposizione dei temi prediletti dai surrealisti, come di consueto, fa perno sull’inconscio. Eppure, stavolta, il film pare avere una valenza più esplicitamente universale e antropologica, rispetto alla prima opera: quest’inconscio è diventato motore e palcoscenico di un’intera umanità assetata di libertà. L’attacco alle mortifere istituzioni religiose si fa più esplicito e aspro che mai, e se prima trovava plasticità nell’uomo che trascina i due preti e le tavole mosaiche, adesso si concretizza nelle figure di alti prelati scheletriti eppure ancora vestiti dei sacri paramenti, e ai quali tocca la defenestrazione. Anche lo stato e l’esercito, epitomi dell’istituzione laica, vengono fatti a pezzi. L’Uomo s’infischia della battaglia, così come della missione assegnatagli, pur di rincorrere il proprio amore. Persino la Donna, adesso, diventa agente e coprotagonista, non più oscuro oggetto del desiderio, al punto da destare scandalo con un dito fasciato che sembra echeggiare il tabù e il conseguente senso di colpa della masturbazione.

Una scena tratta da L'âge d'or
Una scena tratta da L’âge d’or

L’odissea, dunque, è umanissima e insieme carnalissima, chiama in causa l’intera specie umana che anela al raggiungimento o al ricongiungimento con l’amor fou, scopo della vita di quei corpi da sempre indotti a negare o mortificare se stessi, da sempre incatenati da camice di forza storiche, sociali ed economiche. Corpi che avvampano e si consumano nel desiderio, che si agitano nella ricerca, e che forse, romanticamente, sono destinati al perenne fallimento. Parentesi messicana a parte, la filmografia di Buñuel allude a una perenne frustrazione, prodromo di una sconfitta esistenziale nella ricerca di autenticità e di vitalità, filmica e non solo. E se questo moto a perdere origina dalla borghesia, ciò accade sia per mere ragioni di “economia” (è borghese la cornice biografica di provenienza e formazione di Buñuel), sia per un giudizio storico.

Una scena tratta da L'âge d'or
Una scena tratta da L’âge d’or

Buñuel vede nella borghesia la classe dominante del secolo, la più sintomatica espressione della crisi di valori novecentesca, il cui gusto vuoto – cioè inautentico – è ancora una volta simbolo di un’umanità condannata a un viaggio che non può avere (lieto) fine. Viaggia l’uomo di L’âge d’or, per appagare il proprio amor fou. Gironzolano, ben quarantadue anni dopo, tutti i protagonisti de Il fascino discreto della borghesia (1972), nel tentativo di consumare un pasto, sublimazione di un desiderio sessuale/carnale ormai sopito. Il pasto negato, succedaneo del coito negato, sono chiavi simboliche di un’umanità negata a sé stessa. Esattamente ciò che Buñuel ha sempre mirato a rivitalizzare.

L’insopprimibile attualità e urgenza di l’âge d’or

L’intento liberatorio che mosse il surrealismo marcato Dalì/Buñuel, e che trova concretizzazione marxista in L’âge d’or, non fu che uno dei primi tentativi nella storia della Settima Arte di restituire il cinema alla sua vera natura. Almeno, questi erano gli intenti del duo dietro la macchina da presa. Cosa resta oggi dell’impresa buñueliana, dal momento che lo spettro del mostrabile si è allargato a dismisura? Forse non molto a livello profilmico. Eppure è qui che si situa lo scarto tra chi ragiona e scrive di cinema, e chi invece, con eroico furore, maneggia la macchina da presa nelle più inusitate, remote, impensabili terre.

Una scena tratta da L'âge d'or
Una scena tratta da L’âge d’or

Riposa nell’invisibile ai più, lo scarto che separa ciò che è mostrabile da ciò che non lo è, o non lo è ancora. Ed è in questa tensione al continuo superamento di ogni barriera – filmica, morale, tecnologica, sociale – che nasce e si manifesta il genio. Al di là dei risultati tecnici e delle soluzioni stilistiche, delle critiche insite nell’opera, delle soluzioni di montaggio, Buñuel incarnò uno spirito in un certo senso universale: quello di uno spirito mai domo e mai rattrappito in qualsivoglia forma. Il suo sguardo in macchina è figlio, è diretta estensione di uno spirito che perpetuamente ribolle sotto le ceneri della storia, esattamente come la celeberrima scena de L’âge d’or. È in quel magma che sta l’essenza sporca, incoerente, pulsante di un cinema forse sgradevole. Ma, certamente, vivo.

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