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Judas and the Black Messiah

Cinema

Judas and the Black Messiah, uno spaccato della disinfezione culturale degli anni ’60

Judas and the Black Messiah è un prodotto di genuina euristica che prende spunto da fatti tangibili ed assurge a connessione metafisica tra realtà, verità e spettatore.

Tempo di lettura: 5 minuti

Quella del biennio 2020-2021 è un’annata straordinariamente prospera per un sistema hollywoodiano che porta avanti, consapevolmente, un atteggiamento sociale di estrema attenzione nei confronti della discriminazione, soprattutto quella di razza. Che sia spinto da un allineamento alle dinamiche sociali di adesso, con un Black Lives Matter che si colora sempre di più di un imponente chiassosità, o che nasca come conseguenza di una coriacea presa di coscienza del ruolo trainante che il cinema può effettivamente rivestire come veicolo comunicativo e dialettico, ciò che vediamo proiettato sugli schermi, oggi, è il riflesso pedissequo di una società fluida che si evolve, figlia, ma al contempo anche madre, della transustanziazione del sentimento di empatia e di identificazione sul piano visivo.

Prodotti impegnati come Judas and the Black Messiah (disponibile dal 9 aprile sulle principali piattaforme on demand) non si pongono mai come obiettivo quello di causticare famelicamente le ferite di un passato che resta comunque marchiato a fuoco nella matrice umana e collettiva di una razza, indipendentemente dal vertiginoso capovolgimento della prospettiva dalla quale si è imparato a dialogare con ‘l’altro’; né tantomeno mette alla sbarra la Storia, manchevole e difettosa nel suo dipanarsi, perché critiche, giudizi e condanne possono essere solo conseguenza, ma mai presupposto per un cambiamento. Siamo, semplicemente, di fronte a un prodotto di genuina euristica che, prendendo spunto dai fatti, tangibili ed oggettivi, assurge a connessione metafisica tra la realtà, la verità e lo spettatore.

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La razza nera, espressione di una effettività subalterna

Se volessimo mettere nero su bianco un’equazione dal taglio storico, potremmo facilmente dire che la società del tempo sta a Dorian Gray come gli anni ’60 al ritratto che, per lui (e di lui) dipinse Hallward. Mentre ciascun individuo viaggia tra decadenza emotiva e corruzione morale sulla lunghezza d’onda del razzismo, – e lo fa all’unisono, perché il pensiero dell anonimo brulichio è l’unico ad avere valore, e quindi incontestabile – a pagare le miserie del suo agire è proprio quel decennio, che ne riporta i segni e si imbruttisce ad ogni torto perpetrato immotivatamente. Eppure in ogni parentesi storica che si rispetti, sa e vuole emergere il singolo, come Fred Hampton (interpretato da Daniel Kaluuya, che vince per la sua interpretazione un SAG Awards), leader delle Black Panther Party, che lancia (e lascia) il suo contributo, plasmando un microcosmo sociale che, per quanto macilento e sicuramente non paritetico, si dà da fare per combattere la tossicità dell’epoca.

La frustrazione primaria germoglia nell’illogicità del gregarismo della razza nera, che per sopravvivere – letteralmente – in un contesto che la rigetta, ha sviluppato una naturale inclinazione all’adattamento passivo. Hampton non fa niente di più che ricalcare apertamente la riluttanza di ciascun uomo e donna neri a piegarsi, e farsene portavoce. In un segnalarsi attraverso l’individualismo combattivo che non eclissa mai l’altro, ma al contrario sprona anche lui ad emergere, Hampton spianerà inconsapevolmente – insieme ad altri personaggi come Martin Luther King e Malcom X – la strada a quella modernità liquida che, per dirla con le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman, ‘è la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente’.

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Razza bianca e razza nera sono espressioni che hanno soggetto e predicato uguali, ma nell’immaginario collettivo differiscono per qualità, ritenendosi la prima universale e ritenendo la seconda particolare. Un chiaro esempio di questa forma mentis è William ‘Bill’ O’ Neal – che la pellicola avrebbe voluto rendere protagonista di questo racconto, per quanto sottile è il filo che identifica la centralità del personaggio – che, pur essendo un uomo nero, subornato dall’FBI, si infiltra nelle Pantere Nere, allo scopo di fornire informazioni per incriminare Hampton. La sgradevolezza dell’agire di Bill risiede per lo più nel fatto che, pur aiutando i bianchi, non parteggerà mai in maniera convinta per le loro idee: non desidera essere un uomo bianco, ma avere i privilegi di un uomo bianco, pur restando un uomo nero. Dinanzi ad una chiara manifestazione di depersonalizzazione, Bill inciamperà alla fine su se stesso, costretto a fare i conti con un’esclusività bianca che lo etichetterà sempre e comunque come un outsider.

In preda alla disinfezione culturale

Al pari della mafia e del traffico di droga, polizia ed FBI identifica come una vera e propria rogna da risolvere anche quello della multietnicità: scorge nella comunità afroamericana la matrice genetica per una rottura sovversiva degli schemi, quelli canonici ma chiaramente immotivati, e per la perdita di un equilibrio suprematista che difende lo sciovinismo culturale. Di fronte ad un personaggio scomodo, pochissimo è il tempo per una scelta ragionata, e si finisce sempre per convergere verso la soluzione più rapida ma non altrettanto indolore: la violenza.

Accanto all’intento di far circolare l’informazione e implementare la conoscenza della tematica-tabù che, se da un lato commemora i patimenti della razza nera contemporaneamente evidenzia anche i clamorosi passi falsi di quella bianca, Judas and the Black Messiah è anche un vademecum meditativo sul terzo principio della dinamica, per il quale ‘ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria’. Queste situazioni incarnano perfettamente quella metafora per la quale la vita è una partita di scacchi e, dopo la mossa dell’avversario, bisogna capire se muoversi in attacco o in difesa. Alla fibrillazione operativa dell’FBI, che si approccia alla risoluzione del problema come se stesse operando una disinfezione murina, le Black Panther rispondono spesso col fuoco – in senso letterario del termine. In un gap situazionale, la comunità nera giustifica il proprio agire come motivato e necessario, pur essendo marcio nelle fondamenta proprio come quello dei white suprematists.

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Azione e reazione, causa ed effetto, presupposto e conseguenza, diventano concetti legnosi e paradossalmente troppo elastici, si concatenano, perdendo il rapporto di consequenzialità, e rendono quasi vano l’agire della comunità nera. Che la premessa del movimento fosse quello della propria tutela, lo dice lo stesso nome del gruppo, originariamente Black Panther Party for Self-Defense; bisognerebbe indagare sul quando e sul come (piuttosto che sul perché, di cui in questo caso conosciamo la risposta) si è in parte adeguato l’approccio operativo a quello messo in campo dai bianchi.

Ritornando al personaggio di Bill O’Neal, il cui tradimento ha ispirato pletoricamente il titolo Judas and the Black Messiah, la sua posizione controversa è stata indagata poco e forse male, o al più non al meglio del suo potenziale. Mentre Fred Hampton è semplice e genuino nel suo modo di pensare, fare ed agire – e dunque la trasposizione cinematografica non ha necessitato in alcun modo una valutazione criticamente indagatrice del suo personaggio da parte dello spettatore – il tumulto emotivo di Bill sarebbe potuto essere (e forse questa era proprio l’intenzione originaria) la (e unica) chiave di lettura di una società spaccata in due – se non addirittura frantumata – tra l’idealismo ed il capitalismo – con quel famoso piede in due scarpe – e che sogna di cambiare pelle ma poi non si muove se non nel raggio dell’ingombro del proprio corpo.


Judas and the Black Messiah
regia: Shaka King
con: Daniel Kaluuya, Jesse Plemons, Martin Sheen
sceneggiatura: Shaka King
anno: 2021
durata: 126 minuti
disponibile su: VOD
trama: 1968, Illinois. Fred Hampton è il presidente delle Pantere Nere, gruppo rivoluzionario attivo nella lotta contro le discriminazioni razziali. Nella comunità delle Pantere entra a far parte William ‘Bill’ O’ Neal, anche lui uomo nero, che stipula un accordo con l’FBI per fornire una qualsiasi prova che possa far incriminare Hampton, in cambio dell’immunità, a seguito di furti e scorribande di cui era stato responsabile. Durante il corso della permanenza nella comunità, tuttavia, Bill inizia a vivere per davvero la realtà anticonformista e rivoluzionaria di chi è pronto a schierarsi in prima linea per ottenere ciò che gli spetta di diritto.


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