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Anniversari

Il conformista, rigore lineare e giochi di luci e ombre

A 50 anni di distanza, Il conformista di Bernardo Bertolucci continua a raccontare una contemporaneità senza tempo.

Tempo di lettura: 5 minuti

C’è sempre un prima. Un periodo in cui tu sei già tu ma gli altri ancora non lo sanno; alcuni cominciano ad avvertirlo, altri iniziano a percepire la grandezza del tuo lavoro, finché arriva il momento in cui tutto esplode e anche i più riottosi sono costretti a deporre le armi. Prima di diventare il regista dello scandalo, prima delle censure, prima dei riconoscimenti cinematografici, prima dei successi internazionali, prima dell’ingresso nell’Olimpo dei cineasti mondiali: il prima di Bernardo Bertolucci è, sopratutto, Il conformista. Arriva prima, eppure c’è già tutto: c’è l’uomo allo sbando con le sue relazioni perverse, c’è il sesso e le sue ambiguità, c’è Parigi, la critica alla società borghese; c’è, oltre ogni cosa, un senso di grande armonia generale di tutti gli elementi.

In un certo senso, anche Marcello Clerici vede nel matrimonio una scorciatoia per arrivare prima. Lui che si sente così diverso dagli altri, che sente di esserlo spiritualmente se non ontologicamente, non può far a meno di provare il desiderio di essere come gli altri, come tutti gli altri, di uniformarsi al carattere dominante di quel 1938; quando tutti erano fascisti, Marcello Clerici non può che voler essere il fascista perfetto.
Come se non gli bastasse essere come gli altri, come se volesse essere ancora più uguale degli altri, ancora più indistinguibile.

Jean-Louis Trintignant in una scena tratta da Il conformista
Jean-Louis Trintignant in una scena tratta da Il conformista

Indistinguibile come il presente e il passato, l’omicidio di un pedofilo e la sifilide di un padre, come una madre schiavi degli oppiacei e un tirapiedi fascista becero e senza scrupoli. Non la semplice normalità quindi, ma l’impressione della normalità, la stabilità, la sicurezza, attraverso il matrimonio con una piccola borghese. Non la sola camicia nera dunque, ma la polizia segreta fascista, l’uccisione del professor Quadri, suo vecchio insegnante e mentore.

Rigore di movimenti, schematismi, geometrie. C’è sempre un gioco di assi, linee orizzontali e linee verticali che corrono parallele, costruiscono (e custodiscono) ordine, disciplina, codici. E l’aspirante conformista si cala in questa architettura con l’ambizione di essere una linea verticale in mezzo alle altre. Anche lui elemento sostanzialmente inumano, pervaso da quel potere che tutto ha permeato. Porte e finestre con la loro regolarità inquadrate frontalmente a incorniciare la vita, giochi di luci e ombre figli della stessa compostezza, carrelli laterali a seguire e inseguire il percorso umano, ampie sale del potere da fendere con passo deciso e piccoli scompartimenti di un treno che conduce verso l’adempimento di un terribile dovere. A questo rigore scenografico non può che corrispondere un rigore, un gusto quasi teatrale per quanto riguarda la messa in scena degli attori, che diventano così al tempo stesso soggetto e oggetto della scena.

Una scena tratta da Il conformista
Una scena tratta da Il conformista

Luci e ombre definiscono lo spazio, determinano le azioni, stabiliscono rigore, dettano regole. La fotografia di Vittorio Storaro, che per modalità e direzione delle sorgenti di luce si ispira direttamente alla pittura di Caravaggio, pare concepita come se fosse un luogo frutto di quell’architettura fascista schematica e lineare. Luoghi e luci fredde che intrappolano il personaggio in una fitta serie di canali prestabiliti dal Potere, annullando l’arbitrio personale, le scelte individuali.
Come lo stesso Storaro ha più volte avuto modo di confermare, luce e oscurità sono due strumenti utilizzati per sottolineare la personalità bivalente del protagonista, la sua coscienza e il suo subconscio, per contrapporre la sua dimensione pubblica con la sua dimensione privata, per rimarcare la sua sopita omosessualità; luce e oscurità, metafora quindi dell’Italia e del Fascismo. Ma se luce e ombra caratterizzano l’Italia, è il blu cobalto, espressione di libertà dalla dittatura, a incorniciare la Francia, Parigi.

Una scena tratta da Il conformista
Una scena tratta da Il conformista

Clerici però sembra non accorgersene, attraversa i luoghi con noncuranza, appare del tutto assimilato agli ambienti e alle luci: la sua mente, prima ancora che i suoi comportamenti lo certifichino, è già pienamente conformata. È una questione di abitudine, di assuefazione al proprio stato, come per Fabrizio, protagonista di Prima della rivoluzione, che infatti rilevava con amarezza che “con l’abitudine si giustifica tutto, il fascismo, Franco, il razzismo, ci si abitua a tutto”. Ci si abitua a tutto ciò cui ci si vuol abituare, come ad una moglie mediocre, piena di idee meschine, di piccole ambizioni, tutta letto e cucina; ci si abitua all’omicidio e alla sua consequenzialità lineare; ci si abitua alle farneticazioni deliranti dei regimi fascisti; ci si abitua all’idea di dover costruire la propria normalità, faticosamente, quotidianamente; ci si abitua ad essere solo delle ombre, i riflessi delle cose, come nel mito della caverna di Platone e nell’Italia del 1938.

Ma da qualche parte, in profondità, c’è sempre l’individuo, l’uomo, e come spesso accade è una donna a scovarlo e portarlo in superficie.
È ciò che accade a Clerici con Anna, la moglie del professore Quadri. È l’unica, Anna, in grado di riaccendere la scintilla umana di Clerici e al tempo stesso di svegliare sua moglie Giulia dal suo torpore borghese, dapprima con esplicite lusinghe sessuali e poi, sopratutto, con quel ballo, ambiguo, sensuale, peccaminoso, folle, squisitamente parigino.

Una scena tratta da Il conformista
Una scena tratta da Il conformista

E poi, quasi d’improvviso, arriva l’8 settembre con il suo armistizio. La città, le luci, la vita, tutto è uguale anche se tutto è un po’ diverso, leggermente, in sfumatura. Roma è sempre Roma, in eterno, e gli uomini sono gli stessi del giorno prima, anche se stanno un po’ lentamente, impercettibilmente, cambiando. In questo lungo flusso di coscienza dal 1917, anno del traumatico incontro sessuale del Clerici bambino con l’autista Lino, al 1943 il film cresce e cambia, anche visivamente, come il suo protagonista.

Per tre quarti dominato da una regolarità lineare, nell’ultima parte, quella della caduta del regime, lo sguardo di Bertolucci, diventa più morbido, appena più fluido, perde geometrie, le immagini sono meno severe e più cupe; da questo scontro tra il prima e il dopo emerge la forza dirompente del progetto bertolucciano. Emblema di questa dialettica interna al film sono due scene, collocate non a caso nella fase iniziale e finale della pellicola, in qualche modo speculari, in quanto raffiguranti lo stesso spazio, il soggiorno e il corridoio della casa di Giulia. Ma se la scena degli anni ’30 risente della linearità di luci e ombre che caratterizzano la visione che Bertolucci e Storaro danno del periodo fascista, viceversa quella ambientata negli anni ’40, alla caduta del regime, evidenzia sì maggior cupezza cromatica ma anche diverse sorgenti luminose di quello stesso blu cobalto che illuminava Parigi, piccole fiammelle di una libertà che a poco a poco tenta di farsi breccia.

Una scena tratta da Il conformista
Una scena tratta da Il conformista
Una scena tratta da Il conformista
Una scena tratta da Il conformista

Sta, del resto, per arrivare il “lato buono della borghesia”, quello antifascista, ma per un uomo malinconico e crepuscolare come Marcello Clerici, che non conosce senso di colpa, imbarazzo, catarsi, redenzione, è solo l’avvento di un nuovo conformismo.

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