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Perché Dark è una serie che andrebbe assolutamente recuperata

La terza stagione di Dark, composta da 8 episodi, è ora disponibile agli abbonati Netflix. Vi spieghiamo perché è una serie imperdibile.

Tempo di lettura: 4 minuti

Quando due ragazzini spariscono nel nulla dalla cittadina di Winden, nella Germania del 2019, la piccola comunità locale cade in preda all’angoscia. La stessa provata 33 anni prima, quando un evento analogo si era verificato restando avvolto dal mistero. Come allora le ricerche sono vane, e i misteri troppi. Gli scarni indizi conducono verso misteriose grotte situate in prossimità della centrale nucleare di Winden, e verso un tempo che sembra ripetersi sempre uguale a se stesso.

Ciò che Dark ha introdotto nella piattaforma di streaming più popolare al mondo è degno di nota non solo dal punto di vista tematico, ma anche produttivo e distributivo. Partendo dal secondo ordine di fattori, Netflix dimostra una lungimiranza e un sentiment commerciale affatto banali. Privilegiare una serie interamente tedesca significa esser pronti ad allargare i propri confini verso una tradizione audiovisiva che, almeno per il piccolo schermo, ha spesso privilegiato il genere poliziesco e investigativo, con un tono realistico che in Dark viene a mancare molto presto. Il fatto che questa serie – quantomeno nei primissimi episodi della prima stagione – sembri richiamare vagamente suggestioni di uno dei più grandi successi targati Netflix, Stranger things, implica anche un certo coraggio da parte dell’emittente statunitense: insistere sì su un solco tracciato con enorme successo, ma allargare il campo a strade diverse. Meno lineari e più adulte, forse. In tal senso, l’esperimento delle prime due stagioni può dirsi ampiamente riuscito.

Jonas in Dark

Aprire strade diverse, dicevo. È questo uno dei punti cardine dell’intera operazione-Dark, che come detto amplia gli orizzonti di Netflix al thriller fantascientifico e soprattutto metafisico. Il duo Baran “Bo” Odar e Jantje Friese, entrambi alla scrittura, sfodera una narrazione sofisticata e coinvolgente, che nel richiamarsi a un topos già ampiamente battuto come quello dei viaggi nel tempo, sceglie di farlo secondo modalità più complesse rispetto a uno dei capostipiti del genere come Ritorno al futuro, che viene omaggiato ma anche sgrossato di ogni lato fanciullesco e commediolo. Format diversi, certo, ma è proprio in fase di concepimento e sceneggiatura che lo scarto è più che evidente. La trama si complica abbastanza presto, rivelandosi un caleidoscopico turbinio all’intero del quale è sempre più arduo distinguere chi è chi, e soprattutto dove (o sarebbe meglio dire “quando”?) si trovino i personaggi e le rispettive famiglie. Perfino l’esatta collocazione spazio-temporale degli eventi lascia spazio a più di qualche dubbio. Lo spettatore dovrà imparare molto presto a districarsi tra cunicoli identitari e buchi neri, e chissà chi avrà la capacità di resistere alla tentazione – forse irresistibile – di seguire le vicende dei Winden con un albero genealogico sotto mano.

Che l’intento dell’opera punti a un universo di senso piuttosto sofisticato è evidente dalla ricercatezza delle citazioni filosofiche e dei riferimenti scientifici che Dark sottende: si spazia dalle scoperte sulla relatività di Albert Einstein fino alle teorie filosofiche sull’eterno ritorno dell’uguale di Friedrich Nietzsche, giungendo anche a prendere in considerazione il bosone di Higgs, “la particella di dio” in grado di conferire massa alle particelle. Pur senza pretese di esaustività scientifica, né di assoluta verosimiglianza delle conseguenze, il duo Baran “Bo” Odar e Jantje Friese si addentra in un terreno spesso scivoloso ma ne esce con accortezza, costruendo una vicenda che, almeno fino alla conclusione della seconda stagione, non mostra inguaribili vizi di forma o grossolane imprecisioni. Tra buchi (letteralmente) neri e identità multiple, la vicenda è scandita con i ritmi del thriller, ma quest’impostazione non fa nulla per celare alt(r)i e più radicali quesiti scientifici. La scomparsa dei ragazzini nelle grotte di Winden a intervalli di tempo regolari suggerisce che il tempo (narrativo e scientifico) non è altro che una convenzione: ogni cosa viene piegata e gravita – è proprio il caso di dirlo – intorno a enigmi senza semplici soluzioni. Causa o effetto? Principio o fine? Prima o dopo? E soprattutto: è ancora possibile pensare a tutte le nostre categorie concettuali in maniera rigidamente binaria? Cosa ne sarebbe della logica se introducessimo una terza dimensione, in grado di introdurre il doppio fattore spazio-temporale?

Martha in Dark

Al di là delle speculazioni tematiche, Dark è soprattutto un godibilissimo prodotto di intrattenimento, pur “impegnato” e nobilitato dai dilemmi scientifici che richiama. Radicalizza le ambientazioni di Stranger Things; ingloba e approfondisce il disagio post-adolescenziale di Donnie Darko, portandolo a maturazione; echeggia il tema del doppio di lynchiana memoria, pur distaccandosi dalla metafisica surrealistica di Twin Peaks nel suo essere più ragionata e razionale. Insomma, Dark si riallaccia ed intreccia varie suggestioni e si rivolge a un’ampia fetta di pubblico, iniettando nella narrazione un andamento da capogiro. E, elemento non da poco, amalgama il tutto con un’impalcatura sonora non meno raffinata dell’immagine, che contribuisce a rendere inconfondibile, quasi iconico il mondo di Winden. L’ipnotica sigla firmata dal tedesco Apparat (Goodbye) introduce alle azzeccatissime e suggestive brecce sonore aperte nelle inquietanti atmosfere di Ben Frost, compositore australiano all’ennesima collaborazione con il mondo serial-cinematografico.

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