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Calavaire

Cinema

Calvaire: l’horror di genere e la sovversione dei ruoli

Calvaire, opera prima di Fabrice Du Welz del 2004, è un horror che sovverte molti canoni del genere, destrutturando la figura maschile

Tempo di lettura: 4 minuti

Il genere horror, nei primi anni duemila, ha conosciuto in Europa un nuovo sorprendente corso, soprattutto nei paesi francofoni. Caratteristiche peculiari del filone erano sceneggiature originali che prendevano le distanze dai remake dei classici degli anni settanta, la negazione del concetto di famiglia in nome dell’individualismo, la presenza di figure femminili molto forti e scaltre, estremamente resistenti al dolore fisico, che si contrapponevano al clichè dell’ “oca brutalizzata” di molto cinema horror americano. Inoltre un’infinità di elementi grotteschi, sangue e gore a volontà. Mi aspettavo quindi l’ennesimo splatter all’emoglobina apprestandomi alla visione di Calvaire di Fabrice Du Welz (2004), titolo erroneamente accostato ad Haute Tension, A’interiour, Martyrs. Ma già dalle prime scene ho capito che si trattava di qualcosa di diverso: Calvaire si tiene sapientemente lontano da eccessi e scene sanguinarie e si dipana in una cupa ed opprimente lentezza, adottando uno stile sporco ma elegante, capace di creare shock visivi ed emotivi ben più efficaci degli espedienti exploitation.

Una scena tratta da Calvaire
Una scena tratta da Calvaire

Il protagonista è Marc, giovane affascinante ma poco empatico, un cantante ambulante che si esibisce in ospizi per anziani e che si sposta attraverso le immote e desolate campagne belghe a bordo di un furgoncino. L’incipit in tono minore è già il preludio di quella che sarà la decostruzione del maschio destinato a trasformarsi in ibrido: gli spettacoli sono grotteschi e al limite del ridicolo, così come imbarazzanti sono le avances delle anziane che gli si avvinghiano addosso alla fine della performance. Nonostante i presagi negativi («ci mancherai molto» dice, quasi in lacrime, la direttrice dell’ospizio), Marc non sa che sta andando incontro al suo personale calvario. Come in ogni horror che si rispetti, il furgone avrà un guasto proprio nel bel mezzo del nulla e Marc si ritroverà all’Hotel di Bartèl, un anziano solo e fin troppo gentile. A seguito di un singolare fraintendimento, per il ragazzo comincerà una via crucis nei meandri più oscuri e bestiali dell’animo umano, tra individui che hanno collettivamente perso il contatto con la realtà.

Una scena tratta da Calvaire
Una scena tratta da Calvaire

Spiazzante il capovolgimento dei ruoli classici di vittima e carnefice: un uomo solo e disarmato che ha la meglio su un giovane che avrebbe tutte le carte in regola per sfuggirgli. Ma Bartèl non ha bisogno di armi o violenza: riuscirà a sottrarre di scena in scena la dignità di uomo a Marc, complice la mancanza di reazione di quest’ultimo che si abbandona a fastidiosi piagnucolii da “femminuccia”. Lo spettatore, impotente davanti al macabro spettacolo, empatizza più con il carnefice Bartèl, così triste e disperato ma sicuramente molto umano, che con l’algida vittima. Poi c’è Gloria, che conosciamo solo attraverso le parole degli altri, moglie di Bartèl ma amante di molti nel paese, assenza assordante che è riuscita a lasciarsi alle spalle un villaggio misogino e crudele, abbandonando gli uomini ad un destino di abbrutimento che li rende peggiori degli animali (sono appunto le bestie a sostituire la figura femminile negli amplessi sessuali). Una condizione allucinata la loro, descritta magistralmente con inquadrature sbilenche, in una delle scene più disturbanti degli ultimi decenni, quella del ballo alla taverna (un omaggio al film Una sera, un treno di Andrè Delvaux, del 1968), dove gli uomini si muovono come zombie, innaturali e grotteschi, ormai prigionieri di una disumanità straniante, privi della grazia che solo una presenza femminile poteva loro garantire.

Una scena tratta da Calvaire
Una scena tratta da Calvaire

Calvaire è un film sulla perdita e sulla solitudine, romantico in modo straziante, in cui il disamore logora a tal punto la mente degli abitanti della comunità da devastarla. I sentimenti umani sono deformati, una sessualità primitiva e animalesca è l’unica forza che tiene questi abbozzi di umanità ancora in vita. Bartèl ritrova la sua Gloria, che è però un malcapitato viaggiatore di sesso maschile; Boris, l’uomo ritardato che incontriamo fin dall’inizio alla ricerca della sua cagnolina dispersa, scambia poi per un vitello. Tutto è capovolto, tutto è sbagliato eppure così stranamente naturale per i freak che popolano il film e che, lungi dal far paura, suscitano un’infinita pena nella loro forsennata ricerca di amore.

La simbologia cristiana viene sovvertita: per Marc il calvario non è un cammino verso la redenzione ma una discesa in un mondo sporco e malato, in cui smarrirà completamente la sua identità: non è più niente, infatti, mentre vaga tra la nebbia e inciampa nel fango, immerso nella decadente bellezza di un paesaggio invernale. L’impossibilità di spiegarsi, di comunicare, di sottrarsi a quelle sabbie mobili non gli ha permesso di tenere separati il mondo reale da quello della follia. Il film è una metafora potentissima della società maschilista che obbedisce a regole assurde e incomprensibili, in cui la vittima è un uomo tra gli uomini che viene umiliato, stuprato, degradato, annientato. Per quanto sgradevole, questa surreale opera prima di un regista che poi si è un po’ perso, va recuperata e goduta in tutte le sue sfaccettature.

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