C’è stato un periodo in cui Quentin Tarantino era un regista a suo modo rivoluzionario. Per linguaggio cinematografico, messa in scena, costruzione dei dialoghi, montaggio, le opere di Tarantino erano chiaramente riconoscibili, e lo erano in modo in cui nessun film lo era mai stato prima. C’era una volta a…Hollywood sancisce la conclusione di quel periodo, portando a compimento quel lento e inarrestato declino iniziato in parte con Django Unchained e proseguito poi con The Hateful Eight.
È il 1969, e la Fabbrica dei Sogni vive il suo periodo di massimo splendore. Los Angeles è il centro del mondo cinematografico. Siamo alla vigilia di grandi cambiamenti, la cosiddetta New Hollywood sta per arrivare.
Rick Dalton (Di Caprio) è la star della serie televisiva wester Bounty Law. Vorrebbe fare il grande salto nel cinema che conta; l’agente Marvin Schwarzs (Al Pacino) gli consiglia di andare in Italia a lavorare con Sergio Corbucci ma nel frattempo colleziona ruoli da “cattivo di turno” in diversi show televisivi. Al suo fianco Cliff Booth (Brad Pitt), storica controfigura, autista tuttofare, amico sincero e confidente fidato.
Per i primi 120 minuti il film è tutto qui. I patemi di Rick, la carriera che non decolla, l’alcol, le battute dimenticate, i giri in Cadilac scarrozzato dall’amico Cliff, il quale tra un set e l’altro trova anche il tempo di sfidare in combattimento Bruce Lee, in una delle scene più gustose dell’intero film.

E poi c’è Lei, Sharon Tate (Robbie), che viene ad abitare insieme al marito Roman Polanski, nella villetta accanto a Rick. Sappiamo cosa dovrà succedere, ci aspettiamo che in qualche modo il genio di Tarantino metta insieme questi due filoni narrativi, ma invano: come due binari, Rick e Sharon proseguono in parallelo, lui impegnato con le riprese di Lancer, dove il regista vuole per lui un ruolo da cowboy hippie, lei partecipa alle feste e vive giorni di entusiasmo grazie al suo ultimo film The Wrecking Crew, corre a rivederlo al cinema, ride di gusto col pubblico e di quelle risate si gratifica.
Certo, non è affatto male godersi gli spezzoni tratti dai film e dalle serie interpretati in passato da Rick Dalton, in cui ad esempio armato di lanciafiamme castiga un gruppo di nazisti (evidentemente il fuoco per Quentin è l’arma ideale per combattere i nazisti, si veda il finale di Bastardi senza Gloria), o immaginare come sarebbe stato essere il sostituto di Steve McQueen ne La Grande Fuga, quando sembrava che potesse diventare realtà. La verità è però che per tutte le prime due ore di film lo spettatore vorrebbe che spuntasse d’improvviso un Mister Wolf a risolvere la monotonia di una storia che non vuole decollare. Rick stesso è un unicum tra i personaggi di Tarantino, non avendo l’ironia di un Mister Pink, la verve di un Vincent Vega, la stralunatezza un po’ folle e tanto determinata di un Aldo Raine.
Per il suo film meno tarantinesco, che è sicuramente un omaggio innamorato a un certo cinema, quello della sua infanzia ( ma in fondo quale film di Tarantino non è un omaggio al cinema?), Tarantino rinuncia a tutti i suoi tratti più distintivi, a cominciare dalla divisione in capitoli, a favore di un film unitario e addirittura montato in ordine cronologico. Ma soprattutto rinuncia al suo vero, grande punto di forza, il motivo per il quale è stato ed è tanto amato da pubblico e di critica: il suo straordinario modo di far interagire tra loro i personaggi attraverso le situazioni e attraverso dialoghi magistralmente scritti.
Ma su tutto il film, come su tutta Hollywood e su tutto il 1969, incombe la minaccia di Charles Manson e della sua setta. Sarà lì certamente, pensa lo spettatore, che Tarantino avrà collocato il suo detonatore per far finalmente esplodere il film; quando Cliff incontra una autostoppista fin troppo spavalda per la sua età che lo conduce allo Spahn Ranch dove vive in comunità,la sua diffidenza, la sua intuizione di qualcosa di anomalo, fanno pensare allo spettatore che il colpo tarantinesco è pronto, da un momento all’altro. E invece, leggera suspence, quattro cazzotti e nulla più.
È una sequenza però importante che dà una chiara indicazione di quello che sarà il prosieguo del film nella sua ultima parte, perché nel frattempo siamo arrivati al 9 agosto 1969. La voce fuori campo scandisce gli eventi della giornata e contribuisce a rendere il ritmo serrato; si innesca un inconscio ma consapevole conto alla rovescia verso gli omicidi della notte.

Ma come si può pretendere che Tarantino, un regista che ha ucciso Hitler per mano di una ragazza ebrea e di alcuni “Bastardi” e ha vendicato la schiavitù dei neri versando ettolitri di sangue, faccia seguire agli eventi il proprio corso?
Se in Bastardi senza Gloria la decisione di cambiare la Storia e vendicare gli ebrei era una scelta originalissima, poetica, inaspettata ed entusiasmante, e in Django una lettura simile era ciò che dava sostanza all’intero film, in questo caso cambiare la Storia sembra sia l’ultimo tentativo per salvare la storia di questa pellicola, in una sequenza finale a tratti anche divertente, grazie soprattutto al solito Pitt, ma che risulta prevedibile e quindi poco efficace, non sorprende e non ammalia.
Viene da pensare che Quentin Tarantino non abbia, purtroppo, fatto suo il monito di Marsellus Wallace: “La faccenda è che in questo momento hai talento, ma per quanto sia doloroso il talento non dura. Il tuo periodo sta per finire. Ora, questa è una merdosissima realtà della vita, ma è una realtà della vita davanti alla quale il tuo culo deve essere realista. Vedi, questa attività è stracolma di stronzi poco realisti che da giovani pensavano che il loro culo sarebbe invecchiato come il vino. Se vuoi dire che diventa aceto, è così; se vuoi dire che migliora con l’età, non è così”.
Da Quentin ci si aspettava un vino migliore.
