Se Pietro Germi fosse stato vivo avremmo probabilmente visto un film molto diverso. Forse avrebbe spinto più su toni grotteschi, forse avrebbe dato un’aria più surreale all’intero progetto. Non lo sapremo mai. Ciò che pare certo, come testimoniato anche da Gastone Moschin in numerose dichiarazioni, è che con Germi alla regia avremmo avuto un film ancora più malinconico, ancora più crepuscolare.
E in effetti, malinconia, crepuscolarità, addio, sono tutti temi e ancora prima sensazioni centrali nell’Amici miei di Mario Monicelli, in questo sì fedele all’impostazione Germiana: realizzare, sostanzialmente, un film sulla morte.
Perché in fondo Amici miei è da una parte perfetto termometro del clima italiano a metà degli anni ’70, la pesantezza degli anni di piombo a gravare nella testa e nel cuore, una popolazione che aveva esaurito da tempo gli entusiasmi del boom e che per tutta risposta si ripiegava su se stessa, nel suo privato e nel suo individualismo; dall’altra parte è l’atto conclusivo della commedia all’italiana, ne decreta ufficialmente l’estinzione, sancisce definitivamente l’esaurimento di quel genere cinematografico.

Questo gruppo di cinquantenni, disadattati, sociopatici, immaturi, probabilmente condannati a una inadeguatezza perenne, sono la metafora perfetta di un Paese smarrito che vede davanti a sé l’apposimarsi della fine, e insieme simbolo perfetto di quanto la commedia all’italiana non sia più in grado di decifrare una realtà divenuta troppo complessa.
Si ride, amaramente; si gioisce, per disperazione. La carica comica ormai non nasce più dalla quotidianità, dalla vita, dalla strada, dai tipi che tentavano di barcamenarsi nella società, di scalarla o di sopravvivere, come nella commedia all’italiana; le situazioni comiche in Amici miei sono create ad arte, nascono con la necessità di nascere, senza la spontanietà della vita ma, al contrario, per il bisogno di sopravvivere, di non morire.
Da qui la sequenza di sketch, alcuni certamente memorabili, che se da una parte fanno perdere al film un certo respiro aromico, dall’altra sono la perfetta fotografia di una società frammentata, uno specchio rotto i cui frammenti spezzati giaciono ancora sul pavimento e presi singolarmente continuano a rispledere anche se l’immagine che restituiscono è alterata, sformata, bella ma incomprensibilmente inquietante.

Da qui anche l’utilizzo di un linguaggio nuovo, che tutto vuol comunicare perché nulla di compiuto riesce a esprimere, la cosidetta “supercazzola”, termine ormai entrato nel gergo comune a indicare un discorso vago e generico finalizzato a eludere la questione; ma l’obiettivo di Mascetti non era affatto fuggire dalle argomentazioni con giri di parole, al contrario era entrare dentro il discorso e svuotarlo di qualunque significato e di qualunque parvenza di serietà, disinnescare qualunque tentativo di comunicazione, perché nel marasma sociale che aveva davanti tutto era più confuso, tutto era più ingarbugliato, anche il linguaggio, rendendo impossibile e forse inutile ogni tentativo di comprensione. Alla fine la supercazzola definiva semplicemente i contorni di una nuova solitudine, di un ritiro dalla socialità a favore di una dimensione più ristretta, quella del gruppo di amici.
Il gruppo di amici, gli “amici miei”, come estensione di appagatezza dello spirito, come tentativo di rifugio da una inappropriatezza esistenziale. Inadeguati in società, inadeguati nel privato, nel rapporto con le donne, con i figli, con le amanti ma a loro agio solo tra loro amici, tanto da rimpiangere di non essere “nati froci”.
Ecco dunque il senso delle zingarate, evasioni goliardiche dalla noia quotidiana che soggiaciono però ad ansie di fuga dalle più profonde implicazioni: fuga dallo squallore per il “Conte” Mascetti, dalla solitudine per Perozzi, dalla modestia per Necchi, dalla famiglia per Melandri, dal suo nulla per Sassaroli.

Alla fine resta da chiedersi, come Perozzi, se sia più da imbecilli considerare la vita come una condanna o come un gioco. I Vitelloni degli anni ’70 sembrano non mostrare dubbi in merito. E allora che si vada tutti insieme dietro al feretro del Perozzi e simbolicamente di tutta la commedia all’italiana, nell’ultima sequenza, reiterando uno scherzo che non finirà mai ai danni del solito malcapitato, strozzando in gola una risata che è insieme un pianto e un pianto che è insieme una risata.
Sempre tra amici, insieme, uniti, verso la Fine.
